Giorgetti l’ingrato sa che i voti li porta Salvini

4 Novembre 2021

Per tutta la campagna elettorale del 2018 Matteo Salvini andò in giro promettendo che avrebbe rimpatriato 500mila immigrati irregolari: “Con le dovute maniere, vanno allontanati tutti”. Fu Giancarlo Giorgetti, intervistato da Peter Gomez alla festa del Fatto, il primo ad ammettere: “Sì, Matteo l’ha sparata grossa”. Gli è sempre piaciuto strizzare l’occhio ai moderati e presentarsi come il leghista con cui si può parlare di affari. Quella volta, però, finse di dimenticarsi che se la Lega aveva quadruplicato i voti era grazie alle sparate demagogiche e forcaiole del giovane segretario amante delle comparsate televisive, che lui stesso aveva contribuito a scegliere.

Del resto, non pareva affatto a disagio il “moderato” Giorgetti sul palco delle manifestazioni convocate dalla Lega insieme a CasaPound, dove si inneggiava alla ruspa per spianare i campi rom. E non si tirava certo indietro, Giorgetti, ai raduni di Pontida, quando fu proposto addirittura di cambiare nome al partito per finalizzarlo all’obiettivo di Salvini premier: quel ragazzo si era rivelato una miniera d’oro, procacciando seggi parlamentari e incarichi governativi a gogò per tutta la nomenclatura leghista.

Mettiamola così: Salvini seminava e Giorgetti raccoglieva. Non credo che il ministro Giorgetti se lo sia dimenticato neanche ora che gli editorialisti degli ex-giornaloni si scervellano sul come prolungare il surplace, ovvero la sospensione della politica fino al 2023 e oltre. L’uomo è troppo astuto per accontentarsi dell’omaggio a lui tributato dai suddetti editorialisti, che lo elevano a “statista”. E che lo collocano un gradino sopra ai vari Brunetta, Carfagna, Renzi, Calenda, immaginandolo tra gli artefici del progetto neo-centrista tecnocratico cucito intorno alla figura di Draghi. Sognano, insomma, che Giorgetti trascini la Lega nell’alveo europeista, se necessario rimpiazzando Salvini con lo scolorito Fedriga. Più Von der Leyen e meno Bolsonaro. Più Meryl Streep e meno Bud Spencer. Sarà verosimile?

Ripeto, l’uomo mi pare troppo avveduto per crederci sul serio. È un vecchio lupo leghista, sa benissimo che i voti li prendono i Bossi e i Salvini, da quelle parti, non certo i Maroni e i Fedriga. Dacché la crisi della Democrazia cristiana, più di trent’anni or sono, restituì spazio politico a una destra popolare combattiva, essa si è nutrita di xenofobia, protesta antitasse, pulsioni forcaiole, rivendicazioni localiste, clericalismo, repulsione per l’intellighenzia progressista. La destra non può fare a meno di figure carismatiche. Che siano i tribuni del Carroccio, o Berlusconi, o la Meloni, la visceralità ne permane costante inestirpabile. “Addomesticare” Salvini sarebbe dunque un’operazione contronatura, peggio, un’evirazione.

Vero è che nel 1998 Berlusconi traghettò Forza Italia nel Partito popolare europeo; ma lo fece dopo che aveva già conquistato il governo del Paese insieme ai post-fascisti e ai leghisti. Oggi la situazione è ben diversa: a Salvini si chiede di diventare partner di un progetto di unità nazionale in posizione subalterna, ciò che il suo elettorato ha già dimostrato di non gradire, come dimostra il fiasco di Milano, Roma e Torino. Se Draghi è il capo, nel popolo di Salvini cresce la voglia di astenersi dal voto. E difatti ieri è scattata la contromossa: alla vigilia del Consiglio Federale della Lega, Salvini rilancia l’ipotesi di un’asse sovranista con l’ungherese Orbán e il polacco Morawiecki. Altro che Ursula.

La base leghista sa bene che, di suo, il manovriero Giorgetti di voti non ne porta. Godere di buona stampa da quelle parti non aiuta, per quanto egli abbia il sostegno di sindaci e presidenti di regione. Il draghismo non accende gli animi. Lui ha perso a Varese, e perfino Zaia ha subito un inaspettato arretramento in Veneto. Ma allora, si dirà, chi gliel’ha fatta fare di candidare Draghi al Quirinale per dar vita a un’inedita formula semipresidenzialista, per giunta in spregio alla Costituzione?

Dubito assai che il Consiglio federale odierno possa trasformarsi in un processo a Salvini. E non certo per la gratitudine che quasi tutti i maggiorenti della Lega dovrebbero pur mostrargli avendoli dotati di solidi stipendi e avendo condotto il partito fino alla maggioranza relativa nel 2019. No, non sarà la riconoscenza a muoverli. Bensì l’istinto di sopravvivenza. Giorgetti, prevedibilmente, minimizzerà le critiche, dicendo di esser stato travisato. Resterà agli atti la sua funzione di pontiere con i poteri forti, buona per conservare le posizioni di potere acquisite. L’esito infausto del tentativo di trasformare la Lega in partito nazionale renderà necessaria una lotta di trincea per mantenere il predominio al Nord, soprattutto per difendere la pericolante roccaforte lombarda. Temo per gli editorialisti adulatori di Giorgetti che anche stavolta abbiano preso un abbaglio.

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