Lavoro: il problema non sono i sussidi bensì i compensi

27 Agosto 2021

I sussidi italiani e americani sono diversi, ma le argomentazioni di chi vuole abolirli sono le stesse. Per rendersene conto basta poco. Negli Stati Uniti è sufficiente accendere Fox News per assistere a una sorta di replica in inglese dei comizi di Matteo Renzi e Matteo Salvini contro il reddito di cittadinanza. Uno dopo l’altro sfilano i governatori repubblicani che denunciano la mancanza di lavoratori. “Il 73 per cento delle piccole imprese ha difficoltà a trovarli”, dicono. E poi via all’attacco degli assegni versati a chi è rimasto disoccupato causa Covid: “Incentivano la pigrizia”, “la gente sta sul divano e incassa i soldi”.

Pure qui, come in Italia, la campagna è furibonda. Anche perché a luglio negli Usa i posti vacanti hanno toccato la quota record di dieci milioni e per ogni disoccupato sono ora disponibili quasi due offerte di lavoro. Un bel problema specie per le pubbliche amministrazioni che, come ha raccontato Bloomberg, hanno bisogno di 720 mila nuovi dipendenti tra poliziotti, vigili del fuoco, operai, sanitari, netturbini, guidatori di autobus e bagnini per le piscine. Un’occupazione quest’ultima che tradizionalmente attirava frotte di studenti e che ora per tornare seducente ha spinto molti sindaci a elargire incentivi da 100 dollari.

Ma allora è vero, dirà l’osservatore distratto: realmente il denaro versato a chi è in difficoltà spinge alla nullafacenza! Salvini, Renzi e la Confindustria hanno ragione! A smentire questa affermazione ci pensano però i dati. Cifre impietose che dimostrano come negli Stati in cui i governatori hanno drasticamente ridotto i sussidi in nome della lotta ai fannulloni le imprese continuano a non trovare manodopera. Anche lì l’occupazione non aumenta e il numero dei posti vacanti resta di fatto invariato. Con un risultato che minaccia di essere paradossale: con meno soldi in tasca i disoccupati finiranno per spendere meno danneggiando le economie locali.

Ciò che sta accadendo lo spiega bene sul New York Times il premio nobel Paul Krugman. Secondo lui è probabile che la pandemia abbia “consentito a molti americani di rendersi conto di cosa era importante per loro. Alcuni hanno realizzato che i soldi che ricevevano per lavori poco piacevoli semplicemente non erano sufficienti. E ora non vogliono tornare alla vecchia condizione se non a fronte di un aumento di stipendi sostanziale e/o condizioni di lavoro migliori”. Poi, ovviamente, ci sono pure altre cause. Vi sono americani che, per esempio, temono il rischio contagio o che lamentano la mancanza di servizi per i loro figli. Ma il nocciolo del problema è uno solo: chi lavora va pagato di più. Da questo punto di vista negli Usa, ma noi crediamo anche in Italia e in Europa, la pandemia potrebbe avere effetti positivi.

Ad Albuquerque, la città più popolosa del Nuovo Messico, da qualche tempo l’amministrazione offre un bonus d’entrata di 15 mila dollari a chi accetta di fare il poliziotto o il vigile del fuoco. E non solo a causa dei sussidi. La novità è che da quelle parti hanno investito gruppi come Amazon, Intel e Netflix i cui salari sono più alti rispetto a quelli pubblici e soprattutto offrono la possibilità di lavorare da casa. Anche a Milano accade qualcosa del genere: nelle scuole lombarde non si trovano 2.000 docenti di informatica e di altre materie tecniche. Chi ha quelle competenza viene meglio pagato dal privato. A dimostrazione, ancora una volta, che il problema non sono i sussidi, ma i compensi. Perché il mercato, per essere davvero libero, deve valere per tutti. Anche per chi lavora.

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