L'intervista

Lea Melandri: “Nessuno ascolta il sogno d’amore degli adolescenti”

Giornalista, scrittrice, attivista, è da poco tornata in libreria con “La mappa del cuore”, un volume che raccoglie le lettere che i ragazzi le scrivevano su una rivista degli anni Ottanta: “Desideri, paure, senso d'inadeguatezza tipici dell'età: le stanze segrete sono rimaste fuori dallo spazio pubblico, dalla scuola, dalla politica. In un'epoca in cui il corpo, invece, è sulla scena”

23 Giugno 2021

“Il sogno d’amore, le paure, i desideri, il senso di inadeguatezza che si prova nel passaggio dall’infanzia all’età adulta: esattamente come quarant’anni fa, queste tematiche vengono ancora lasciate fuori dalla vita pubblica, dalla storia, dalla politica. Una sorta di esilio dei sentimenti”. Far parlare Lea Melandri di adolescenti è come scoprire il vaso di Pandora della propria gioventù; è rendersi conto di quanto mutino i costumi, si riaccendano i femminismi, ma sia rimasta inespressa quella stanza tutta per noi che abbiamo raccontato, a volte, solo all’amica del cuore. Altre, alla sconosciuta titolare di una rubrica su una rivista. Melandri, infatti, non è soltanto un nome imprescindibile del movimento femminista italiano, insegnante, giornalista, attivista che ha contribuito alle battaglie per i diritti. “Cara Lea” è stato uno spazio vitale per gli adolescenti degli anni Ottanta, e in particolare tra l’85 e l’87, quando “Lacrima nera” o “Un granello di polvere sull’argenteria” scrivevano alla rubrica “Inquietudini” di “Ragazza in” per ricevere consigli su quel ragazzo che non le filava, sulle gambe storte o sui capelli obbligatoriamente lunghi. È da poco uscita per Enciclopedia delle Donne la riedizione de “La mappa del cuore, il volume del 1992 in cui Melandri metteva insieme alcune delle lettere più belle, e spesso dolorose, che le erano arrivate in quegli anni, “oltre 80 alla settimana”.

La premessa a quest’intervista, per volere della stessa protagonista, è che ci diamo del tu, “ormai sono abituata così”.

Lea, tu hai scritto una nuova prefazione per il volume. Molte di quelle lettere, incredibilmente, sembrano però scritte ai giorni nostri. Qual è la differenza tra i ragazzi di ieri e i “Millennials”?

Non posso dire di conoscere bene gli adolescenti di oggi. Di questo si occuperanno gli amici di Aterliersi (Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi), che hanno messo in scena alcune lettere e, dopo la stagione estiva sui palchi, le porteranno nelle scuole, proprio per valutarne l’effetto. Credo, però, che il privato indicibile in tutti questi anni sia rimasto tale. La mia segreta seconda vita, per dirla con Sibilla Aleramo – che sosteneva di non riuscire neanche a tradurla in poesia, ma era una spudorata coscienza femminista anticipatrice – è una materia che va ancora scoperta. Ci sono tematiche che continuano a essere un tabù, in famiglia come a scuola.

È strano pensare che una femminista degli anni 70 abbia accettato di rispondere a una sorta di posta del cuore. Ci racconti come andò?

Era un momento particolare della mia vita. Venivo da dieci anni di femminismo e, in effetti, “Inquietudini” fu una proposta molto azzardata degli amici editori. In un primo momento risposi: “Ma come posso fare? Non sono una psicologa, non sono una madre, non ho alcuna attitudine a dare buoni consigli”. Mi risposero: “Scrivi come ti viene, se poi non arrivano lettere ti possiamo licenziare…”. Beh, mi inventai una scrittura lirica, enigmatica, che io stessa spesso trovavo incomprensibile. Ma avevo capacità di ascolto e scoprii che gli adolescenti cercavano proprio questo: qualcuno che li stesse a sentire. E poi mi sono sempre considerata un’adolescente, una che continua a guardare i film d’amore.

Eppure la tua infanzia non è stata idilliaca.

Venivo da una famiglia contadina, poverissima (del ravennate, ndr), avevo assistito ad anni di violenza domestica. Usavo la scrittura per entrare in relazione con gli adulti. Ti racconto questo episodio: primo compito del quarto ginnasio, poteva essere novembre, io descrivo la sofferenza della mia famiglia. L’insegnante me lo riconsegna dicendomi che è scritto benissimo, ma che è completamente fuori tema. E mi mette un brutto voto. Io mi deprimo e lascio la scuola. Poi, per un gioco della sorte, quella docente si ammala e viene sostituita da una supplente. Io ricomincio ad andare a scuola e il resto è storia.

E cos’era “fuori tema”?

La mia condizione sociale, la violenza contro le donne, la sessualità. Fuori tema era una parte enorme della mia vita, e non solo della mia, che nella scuola – ancora oggi – non ha legittimazione. Quando sono scappata dal paese e sono andata a Milano, attraverso il movimento femminista e le Esperienze non autoritarie nella scuola ho scoperto che “fuori tema” era IL tema. La vita prendeva un posto centrale. Quindi quando mi hanno affidato la rubrica, ero già predisposta all’ascolto.

Ma il femminismo di quegli anni parlava di sentimenti?

Si parlava di maternità, e io invece tornavo al bisogno d’amore quale tentativo di essere tutt’uno col corpo materno.

E oggi?

La questione dell’amore è ancora un tabù per il femminismo, dopo 40 anni lo posso dire. Se ne ha paura, perché è un concetto nel quale salta la linea di demarcazione tra aggressore e vittima. Ne Il dominio maschile Pierre Bourdieu si chiede se l’amore sia una tregua nella guerra dei sessi o se sia la forma suprema della violenza simbolica. Io credo si tratti della seconda: bisogna vivere per sé, non trarre il senso della propria vita dal sentirsi indispensabile per un’altra persona. Aleramo ci ha messo cento amori per scoprirlo, a me ne è bastato uno solo.

Ma cosa le chiedevano i ragazzi?

Alcune lettere contenevano domande ingenue e divertenti. “Ho le gambe storte e non dirmi che devo accettarmi per come sono”. “Quel ragazzo mi ha guardato: vuol dire che mi ama?”. “Cosa me ne faccio dei lunghi capelli biondi?”.

E tu, cosa rispondevi?

Non avendo soluzioni, scelsi di estrapolare alcuni frammenti dalle lettere, di unire poche righe mie (liriche e incomprensibili, una mi scrisse: “Non ho capito nulla di quello che hai detto, ma devi essere una brava ragazza”), ma poi di metterli in relazione tra loro. Perché il problema di uno era il problema di molti. Uno di loro mi confermò la bontà della mia scelta: “Hai fatto bene a non dare quella risposta facile, hai aperto la porta della stanza e la stanza non è vuota”.

La capacità di ascolto, dunque.

L’adolescenza è un’età di grande sofferenza, è il momento della solitudine, dell’inadeguatezza dei corpi (già allora parlavano di scoliosi, alitosi, descrizioni che facevano impressione). È l’età in cui la questione del genere si pone con tante ambiguità.

In effetti parli degli anni 80, ma sembra di sentire i nostri figli oggi. Non credi che, rispetto ad alcune tematiche – per esempio il genere – stiamo assistendo a una sorta di restaurazione?

No, anzi, abbiamo fatto un passo avanti. Negli anni 70 noi cercavamo di dare voce alle problematiche del corpo, ed era il momento in cui stavano cambiando i confini tra pubblico e privato. Usciva allo scoperto tutto ciò che era stato considerato l’altrove nella separazione tra il corpo e la polis. Oggi il corpo è in scena. Che sia quello sofferente dei migranti, quello della miseria, quello delle donne oggetto di violenza, quello degli omosessuali insultati. La libertà è stata il nostro passo avanti, di fronte al quale la reazione è un ritorno vendicativo del patriarcato, del sessismo, della misoginia. La questione dei sessi è stata per secoli naturalizzata, trattata cioè come un elemento naturale, e scoprirla oggi come costruzione del dominio maschile genera paure, rancori, insicurezze.

Gli attuali movimenti femministi mondiali stanno mescolando le tematiche e gli obiettivi. Non solo i diritti delle donne, ma anche l’ambiente, le minoranze etniche o religiose, la salvaguardia dei popoli. È la cosiddetta intersezionalità.

E questo mi piace moltissimo, perché queste lotte sono intersecate e la questione uomo/donna le attraversa tutte. Tenere separati gli ambiti vorrebbe dire commettere gli stessi errori di 40 anni fa.

Però ci sono ancora molte donne che non capiscono o, peggio, si scagliano contro le altre donne.

Questo mi intristisce. Alcune di noi, anche nella vita pubblica, parlano la lingua degli uomini. Del resto un dominio non dura così tanto se non trova complicità.

In questo anno di pandemia, nel quale sulle donne è ricaduta oltre la metà del peso del lavoro domestico combinato con quello professionale, si è nominata spesso la parola conciliazione. Ti piace?

No, perché per molto tempo ha significato solo che le donne avevano il diritto a fare il doppio lavoro. E alcune ancora oggi ne fanno un vanto, “riesco a tenere insieme tutto”. Il problema è alla radice. L’articolo 37 della Costituzione recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E mica specifica all’“uomo lavoratore”. Ma poi prosegue: “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Significa che le donne sono principalmente mogli e madri. Allora andiamo più a fondo sulla divisione sessuale del lavoro, legata a un’idea assistenzialistica delle donne. Mettiamo gli uomini a curare bambini, anziani e malati. Se un uomo sapesse cosa vuol dire curare un corpo, forse darebbe la morte con meno facilità.

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