L'intervista

La linguista Cecilia Robustelli: “Le parole discriminano le donne, ma non è colpa dell’italiano”

La professoressa smonta le scuse di chi sostiene che i termini ingegnera o medica siano errati o suonino male: "Al contrario, permettono di attribuire anche a una donna il ruolo che possiede, sono corretti sul piano grammaticale e evitano lo zigzag fra i generi che tanto ostacola la comprensione. Chiediamoci perché si usa senza problemi collaboratrice scolastica e si fa dell'ironia su architetta"

16 Dicembre 2020

“È come un caleidoscopio, che si ruota e l’immagine cambia. Ma poi la sostanza è sempre la stessa”. Prego? “Tutti si sentono autorizzati a parlare di tutto, soprattutto in Rete. Basta rubacchiare qualche ritaglio di interviste o di articoli scientifici, ed ecco che in un batter d’occhio si confeziona un parere. In genere non si conosce a fondo l’argomento, ci si occupa di tutt’altro, ma che importa. Fa un bell’effetto e funziona, nelle discussioni de’ noantri. Si discetta di tutto: la medicina va alla grande, quella naturale batte tutto, ma anche la grammatica è ai primi posti: qualunque persona si ritiene linguista solo perché ha il dono della parola”. Cecilia Robustelli è professoressa ordinaria di Linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia. Di recente è stata protagonista di una meravigliosa lezione sul genere femminile nell’italiano di oggi (per #Maestri, Rai Play). Un tema che nell’ultimo periodo è spesso al centro dell’attenzione. La nostra chiacchierata parte da qui: “Sono sconcertata”.

Professoressa, perché?

Perché mi imbatto, soprattutto in Rete, in moltissime persone entusiaste di esprimere la propria opinione sull’italiano ma non disposte a metterla in dubbio. Dimenticano, però, che la lingua è uno strumento di comunicazione con regole precise, che devono essere rispettate perché la comunicazione funzioni. Invece ognuna ritiene di poter usare la lingua a proprio piacimento. Prendiamo un argomento caldo come l’uso dei termini femminili per indicare ruoli o professioni di prestigio riferiti a donne. Si assiste a affermazioni farneticanti: non sono parole corrette, non esistono, non le uso perché non mi piacciono, preferisco il maschile perché è neutro, voglio usare registo e pediatro e così via. Ma molte non sono vere o realizzabili.

Perché?

Quando parliamo usiamo normalmente il genere femminile per ciò che si riferisce alle donne e quello maschile per gli uomini, e questo uso riflette esattamente la regola grammaticale che abbiamo imparato alle elementari. Se leggiamo che “il dirigente Bianchi” ha firmato una circolare o che “il prefetto Rossi” parteciperà alla cerimonia, l’immagine mentale che si forma nella nostra mente è quella di un uomo. Se invece leggiamo “la dirigente Bianchi” e “la prefetta Rossi” l’immagine sarà quella di una donna. Oggi le donne svolgono professioni e detengono ruoli un tempo solo maschili, quindi sono entrate in italiano, o sono resuscitate, molte forme femminili. Ma in Rete scoppiano polemiche roventi sull’uso di ingegnera o avvocata, mentre tante altre parole nuove sono entrate in italiano senza turbare nessuno.

Per esempio?

Le parole “computer” o “badante” sono entrate nel nostro vocabolario come saette, e non hanno creato alcun problema. “Operatore/trice ecologico/a” e “collaboratore/trice scolastico/a” hanno sostituito netturbino/a e bidello/a, e non ci sono state proteste. Ma le forme femminili per ruoli e professioni di prestigio sono ancora largamente rifiutate, anche se non fanno alcun male. Anzi!.

Ci sta dicendo che l’introduzione di parole come “medica” o “architetta” non crea problemi linguistici?

No di certo, sono parole che permettono di attribuire anche a una donna il ruolo che possiede, sono corrette sul piano grammaticale e evitano lo zigzag fra i generi maschile e femminile che tanto ostacola la comprensione, e quindi la comunicazione. E sono già in uso: io stessa sono stata consulente del Movimento Giotto, l’organizzazione italiana dei giovani medici di medicina generale, che ora si articola in medici e mediche, e di Rebel Architette, un gruppo di professioniste che è riuscito ad avere il timbro dell’Ordine al femminile.

Eppure c’è chi dice che “suonano male”.

In italiano abbiamo parole come “zuzzurellone”, sulla quale intere generazioni di studenti hanno riso, o “logorroico”. Sa che “supercazzola” è anche nello Zanichelli? Provate a leggere i neologismi che entrano ogni anno nei vocabolari, avrete delle sorprese. E poi, usiamo “pasticciera” ma ci rifiutiamo di dire “ingegnera”? Abbiamo laghi di inchiostro in cui ciclicamente qualcuno tenta di far annegare qualche termine, su tutti “architetta” perché i linguisti della domenica lo hanno segmentato in “archi” e “tetta” intesa, quest’ultima, come “seno”. Pazzesco, ma qualcuno ci crede!

Quindi, in questo caso, i cambiamenti sociali non stanno innescando quelli linguistici. E non per “cattiva volontà” dell’italiano.

Diciamo che la lingua ci offre, come sempre, tutte le possibilità per comunicare la presenza delle donne come soggetti attivi della società, come detentrici di ruoli che prima non potevano avere, ma vengono accolte lentamente. Anzi, con esitazione e a volte anche con rifiuto. Certo, qualcosa si può spiegare pensando che la tradizione linguistica è lunga a morire, ma le ragioni sono largamente extra linguistiche, riconducibili alla fortissima tradizione patriarcale che impregna la cultura del nostro Paese e vede l’uomo al centro di tutto, la donna ai margini. E così nell’uso della lingua il genere grammaticale maschile si allunga fino a includere la rappresentazione della donna: ancora oggi si usa “uomo” per indicare uomini e donne, non siamo capaci di usare “essere umano”. Il genere femminile invece rimane relegato ai mestieri e alle professioni più lontane dai centri di potere e più rispondenti ai ruoli tradizionali di moglie e madre. Oppure a quello di oggetto sessuale. Manca la consapevolezza di quanto il linguaggio discrimina le donne.

Gli uomini difendono il proprio potere. Ma perché, spesso, sono le stesse donne a opporsi all’uso di questi termini?

Perché per molte il modello culturale di prestigio associato, per esempio, alla professione di avvocato è ancora quello maschile, è un uomo elegante, solido, sicuro di sé, che guarda in faccia il presidente della giuria, come nei film americani. Per essere brave e diventare potenti è necessario essere come un uomo. E essere chiamate con lo stesso titolo vuol dire avere ottenuto lo stesso successo. Diciamo anche che gli uomini tendono a non riconoscere appieno la bravura delle donne nelle professioni che ancora sentono come un territorio maschile.

E quindi come si fa?

Ci si informa sul ruolo che ha la lingua per costruire e mantenere i rapporti sociali. Su quanto la lingua nasconda nelle sue pieghe pregiudizi e stereotipi, ai quali siamo tanto abituate da non accorgercene neanche. Sulla necessità di usare un linguaggio che rifletta il lungo percorso di empowerment compiuto dalle donne. Si legge e si studia, in Rete si trovano molte indicazioni di lavori seri, scientifici, che affrontano la questione da molti punti di vista.

E le donne di potere possono aiutare?

Quelle che rivestono ruoli importanti devono farsi capofila di un cambiamento, e alcune l’hanno fatto: penso per le istituzioni all’on. Laura Boldrini, alla ministra Fedeli, alla giudice Paola Di Nicola. Avere donne nelle posizioni di potere permette di avere una gestione diversa del potere stesso. Prendiamo la pandemia da coronavirus: abbiamo assistito a una ridda di Dpcm, a un trionfo di colori regionali, a misure dal fiato corto. Se nelle varie cabine di regia ci fossero state più donne, avremmo avuto una visione più ampia della situazione.

La pandemia ha avuto un doppio impatto sulle donne: da un lato, in molte sono rimaste disoccupate; dall’altro, si è riscoperto il valore del “lavoro di cura”, appannaggio dal genere femminile.

C’era bisogno del Covid per capire che le donne sono importanti… Se da questo periodo uscisse una visione diversa della società, i lavori tradizionalmente considerati minoritari assumerebbero un nuovo significato, e così le figure che li rappresentano. Temo, però, che le ferite del covid si stiano chiudendo in modo purulento: non stiamo imparando nulla. Però le donne oggi sono molto più organizzate e si muovono concretamente. Noi Rete Donne, un’associazione di donne impegnata da dieci anni a garantire il principio di uguaglianza e rappresentanza paritaria in tutte le sedi decisionali, ha scritto alla presidente della Commissione Europea e al presidente del Parlamento perché le risorse del Next Generation EU siano investite tenendo conto delle differenze di genere. Una bella prova dell’impegno delle donne sul piano politico internazionale, impensabile fino a pochi anni fa.

Nella narrazione dei femminicidi, anche la categoria dei giornalisti ha gravi responsabilità. Se la vittima è una donna, si parla solo di lei e, forse, di quel “brav’uomo” che l’ha uccisa. Viceversa, si racconta solo l’assassina quando è una donna che uccide il proprio partner.

Spesso le due forme di violenza vengono accomunate. Ma non è così. La violenza “di genere” è sistematica e dipende dal fatto che le donne vengono ancora considerate oggetti di proprietà dell’uomo. Quindi “se la cercano”, se si vestono in un certo modo, se tradiscono; l’uomo finisce con l’essere giustificato. È un modello pericolosissimo ma ancora vivo, a volte addirittura in chi si trova a dover emettere un giudizio in un’aula di tribunale. Viviamo in un clima sessista, misogino. La prima cosa da fare è acquisirne consapevolezza, e in questo l’attenzione al linguaggio ci può aiutare.

Come?

Facendo attenzione a ciò che si sente dire o che anche noi diciamo. Cominciamo a notare che un modello diffuso di esclamazione volgare è tutto al femminile, Porca… Le battute pesanti e i commenti ritenuti di apprezzamento rivolti alle donne includono di regola considerazioni di tipo sessuale. Perfino i testi delle canzoni, da Una carezza in un pugno in su, possono essere pesantemente sessisti. E poi l’uso del nome proprio o di signorina o signora per le colleghe d’ufficio al posto del loro titolo. Le interruzioni da parte di un uomo quando parla una donna per spiegare il suo pensiero (si chiama mansplaining). L’uso del titolo maschile anziché femminile. E ovviamente il contenuto del messaggio, che può essere offensivo, riduttivo, derisorio, discriminante, fino ad arrivare al vero e proprio discorso d’odio e di violenza. Il linguaggio è la cartina di tornasole del sessismo e della discriminazione. Attenzione quindi a liquidare con atteggiamento benaltrista la questione dell’uso dei termini femminili, che sono solo un esempio di linguaggio sessista: dietro a queste parole c’è di più. C’è una visione del mondo che riconosce il percorso socioculturale delle donne e contrasta la tradizione patriarcale. Una parola al femminile è una dichiarazione di riconoscimento del ruolo di una donna e della sua possibilità di agire.

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