Tracciamenti. Le vie dello screening sono infinite, dai tamponi ai sierologici

4 Novembre 2020

Il paziente indichi i contatti degli ultimi giorni. C’è un momento Ddr che prima o poi si presenterà a molti, ed è quando devi mettere giù una lista, cioè denunciare in qualche modo che hai rischiato di contagiare qualcuno. Piccolo tremore: con la sola imposizione della penna su un foglio puoi chiudere in casa per diversi giorni molta gente. La famiglia, ovvio. I colleghi di lavoro. Eventuali amici e/o fidanzati e/o amanti. Le frequentazioni casuali di conoscenti, varie ed eventuali.

Poi comincia il gioco dell’oca: attesa del tampone, fermo due turni, attesa dei risultati del tampone, fermo un turno, quarantena precauzionale, vai indietro di due caselle, volontaria, obbligatoria. Domande banali che diventano dilemmi etici (aspetto esito tampone, posso andare a prendere il pane?). Telefonate allarmate (quasi sempre allarmate di finire nella lista). Telefonate interessate, che partono per chiedere “come stai?” e invece vogliono sapere i dettagli, le pratiche, i tempi, se esistono scorciatoie, con tutte le varianti regionali (pubblico? Privato? Dove? Quanto costa?).

Se il tampone è negativo (wow!) si riparte dal via, nella speranza di non finire nella lista di qualcuno e di ricominciare il gioco da capo. Sarà così per mesi, se va bene. Una lotta inesausta e quotidiana con la nostra nuova inedita precarietà totale, la buroktatsija bislacca, la ruvida poesia dei tracciamenti, ognuno col suo percorso.

Già bruciata l’escalation dello screening: erano una sciccheria per pochi i sierologici pungidito, quasi subito diventati di massa; così che era quasi un upgrade sociale fare il tampone, quello veloce, otto minuti di attesa nervosa. Molto complicate le istruzioni del gioco, perché le vie dello screening sono infinite. Ci pensa l’azienda, con dei suoi misteriosi canali privati, no, ci pensa il dottore, no ci pensa il farmacista, che ti rimanda dal dottore, che ti rimbalza, no, ti fa una richiesta, informa la Ast, o Asl, o come si chiama la sanità nel posto dove vivi.

Ed eccoti nel tunnel, benvenuto. Devi aspettare. Non uscire. Fai la tua lista. Calcola i giorni. E tutto questo se insieme all’attesa, alle telefonate, alle mail, al controllo compulsivo di fascicoli sanitari, siti, password, codici fiscali, non si aggiungono febbre, o tosse, o sa dio cosa, cioè si parla qui del migliore dei casi: l’asintomatico che incappa nella rete, seduto sulla lama che separa seccatura e fifa vera.

Dopo una vita a sentire il ritornello padronale per cui bisognava diventare flessibili, più flessibili, non basta!, più flessibili ancora, eccoci tutti elastici e modulabili dai protocolli sanitari, la vita governata dal virus, dalla paura e dal caso, ma sì, il famoso “destino” dei romanzi: “Egli parlò per dieci minuti con l’elettrauto e rimase confinato per due settimane”. “Ella prese l’ascensore con il ragioniere dell’ufficio sinistri e ora cucina torte da quindici giorni”. La sfiga.

Nessuno scenario sul “dopo” è seriamente prevedibile, ma certo di questo nostro vivere sospesi senza calendario, senza scadenze definitive – tutto può slittare, saltare, annullarsi da un momento all’altro – porteremo alla fine qualche traccia. Forse sarà il caro vecchio memento mori che rende tutto più relativo e induce a una certa indulgenza zen, o forse (più probabile) una nuova modalità di intermittenza, nel lavoro, nel tempo libero, negli affetti e insomma nella vita, che potrebbe essere un prezioso e involontario (e odioso) allenamento per le precarietà che verranno, che saranno feroci.

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