Quel “bravo figlio”e la terra del male

Di Omar Di Monopoli
30 Settembre 2020

Occhi come minuscoli ciottoli neri in cui sembra non possa riflettersi nulla. Lo sguardo smunto e pulito di un ragazzo del profondo Sud. Un ragazzo tranquillo. Sereno.

“Nnu figghiu di la terra nòscia”, direbbero gli anziani del paese facendo schioccare le gengive, le mani intente a scartare il settebello dal mazzo smezzato di napoletane, il sole a perpendicolo che non lascia scampo in questa scorcio di un’estate salentina che sembra non voler finire mai.

A guardarli che ti scrutano senz’anima dalle foto sui giornali, uno potrebbe immaginarsi la fiammata improvvisa che deve averli accesi, quei peciosi corridoi privi di fondo. Sono gli occhi di un killer sadico e spietato, e tu non lo diresti mai. Sono gli occhi di Giovanni Antonio De Marco, 21 anni, allievo infermiere, la luce imberbe della sua giovane coscienza risucchiata per sempre dalla tenebra più oscura il giorno in cui ha deciso di sgretolare il muro che separa la fantasia dalla realtà per rendere vero un desiderio macabro: sottrarre la vita ai due amanti con cui aveva convissuto in quel di Lecce.

L’assassinio del giovane arbitro Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta è maturato in seno a un ambiente, quello delle coabitazioni forzate legate al mondo universitario, che già ci aveva indotto col caso della povera Meredith Kercher a una repentina riformulazione del nostro concetto di spensieratezza dell’età studentesca. Qui abbiamo un aspirante paramedico che di quella innocenza, di quel candore presunto, idealizzato, ha fatto strame uccidendo con crudezza. Sino a pochi mesi fa il ragazzo viveva assieme alla giovane coppia di vittime; messo alle corde dalla polizia dopo alcuni giorni di indagini serrate, da ieri è responsabile reo confesso della morte dei due fidanzati.

Le ragioni che hanno alimentato la scintilla dell’odio e fatto premeditare l’omicidio (con maniacale attenzione, a giudicare dagli schemini ritrovati su alcuni appunti) non risultano in alcun modo legate a questioni passionali né meramente debitorie (il De Marco non era un locatario moroso) ma sono – banalmente, spaventosamente – da ascriversi a una certa ritrosia da parte del ragazzo ad accettare la voluttuosa esibizione di felicità con cui il duo di fidanzati era solito condire il loro soggiorno nel capoluogo salentino; una cittadina, Lecce, che, oltre all’indubbia plenitudine di gioie gastronomiche e architetture barocche, vanta un invidiabile grado di vivibilità e una certa pacatezza delle attività sociali diurne e notturne.

Non sfugge quindi all’osservatore la strana dicotomia tra l’apparente serenità del teatro in cui tanto livore ha preso corpo e la devastazione cui tale epifania ha fatto seguito. Un orrore che i media non mancano di raccontarci con dovizia di particolari: colpi inferti con disumanità anche in zone non vitali degli innamorati per mezzo di un coltellaccio da caccia, fascette stringitubo e cappucci di nylon pronti all’uso per oltraggiare i corpi, un “cronoprogramma” di lavoro stilato dettagliatamente su cinque fogli manoscritti, l’acquisto di soda caustica, candeggina e strumenti sanitari atti a eliminare ogni prova. Un vero piano diabolico opera di quello che in tanti avrebbero pensato come poco più che un pischello; introverso e discreto, certo, ma sempre e solamente, come ancora direbbero gli anziani del paese, “soltantu nnu vagnòne”. E poi la consueta, beneducata cortesia di facciata con cui viene descritto da amici e conoscenti l’assassino, proverbialmente un “bravo figlio” di una rispettabilissima famiglia di un altrettanto tranquillo paese della provincia più fonda, Casarano, uno dei molteplici piccoli centri che popolano il tacco d’Italia, case sferzate dallo scirocco sparse lungo poderi ticchiolati di ulivi e fichidindia in cui mai t’immagineresti il Maligno covasse una progenie.

Ma in fondo – letteratura e cinema ce lo insegnano sin dai loro albori – è spesso nella quiete ovattata delle esistenze tranquille che il Male, taciuto, beffardo, alligna silenziosamente e infine deflagra (chi scrive vive da più di un ventennio a Manduria, ridente cittadina del Salento meno à la page che pure qualche tempo fa si è resa protagonista di un altro misfatto agghiacciante: quello della morte del pensionato Antonio Stano per mano dei cosiddetti “orfanelli”, una vicenda di cronaca nera per la quale i manduriani pagano ancora un’onta indegna). Quasi insomma che in posti come questi, luoghi pieni di Storia e tradizione, a primo acchito scevri da quel disordine caratteristico dei meridioni del mondo ma al tempo stesso privati dalla crisi economica di una direzione identitaria forte, le nefandezze riescano a trovare – complice la distrazione delle autorità fisiche e morali che presiedono la zona – un rifugio in cui proliferare indisturbate.

E ancora: immaginando la vita di un fuorisede imberbe che animato da legittime ambizioni di carriera si muove dal suo villaggio dimenticato da Dio e in pochi mesi attira e sedimenta nel proprio apparato circolatorio spirituale tanta cattiveria da arrivare a eliminare fisicamente ciò che disturbava la propria difettiva percezione dello stare al mondo, come non fermarsi a riflettere sulla natura di chi, noi tutti, ci portiamo quotidianamente in casa? Coinquilini per necessità, durante gli anni universitari – ma anche dopo, come sempre più spesso impone la precarietà di questo nostro più che liquido presente – abbiamo convissuto assieme a perfetti sconosciuti che presto o tardi rivelavano stranezze, manie o nevrosi degne del più aggiornato Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali.

E allora come uscirne? Fermarsi a inorridire scaricando su chi non vigila abbastanza sembra essere pratica deresponsabilizzante più che risolutiva. Al solito, casi come questo, casi che scoperchiano il ribollire di una violenza inaudita e priva di coordinate nella fascia dei più giovani sono un canto d’allarme: un monito che la società tutta deve saper cogliere.

I social, il web e la corrispettiva rappresentazione distorta del Sé sono elementi critici cui da tempo si riflette senza riuscire a porre un punto, perché il sistema dei pesi e contrappesi è da tempo sfalsato in favore del mercato: niente è più vero perché tutto è merce, anche la dignità del singolo. Sia allora ricordata la massima di George Eliot: “Nessun male ci condanna senza speranza tranne il male che amiamo, e quello nel quale desideriamo perseverare, e a cui non facciamo alcun tentativo di sfuggire”.

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