L’anniversario

Bukowski – L’impiegato sbronzo: “Post Office” e post-coito

Cent’anni fa nasceva Charles - L’impiegato sbronzo: “Post Office” e post-coito

14 Agosto 2020

“Ok, Hank. Ti offro cento dollari al mese. Finché campi”. Bukowski guarda fuori dalla finestra. Un vitalizio! Quel che gli propone l’editore John Martin basta e avanza per mollare l’impiego all’ufficio postale e mettersi a scrivere a tempo pieno. Le spese correnti? Beh, 35 dollari per la tana a East Hollywood; 15 destinati agli alimenti all’ex moglie, la poetessa texana Barbara Frye, che aveva sposato senza averla mai vista; 3 per le sigarette, 10 in vino e birra e altri 15 per ficcarsi qualcosa nello stomaco. Miracoloso, questo dicembre 1969.

Martin è il Santa Claus che gli regala la chance di non impazzire smistando le buste chiuse sulla vita segreta della gente, e le cartoline così impudiche. Sì, cazzo, da oggi la penna nel taschino avrà il suo daffare. Martin e la casa editrice Black Sparrow non dovranno aspettare: dopo un mese ecco lo scartafaccio di Post Office, il romanzo d’esordio di Charles Bukowski. Autobiografico, certo: il postino ubriacone che suona sempre una volta, e quella galleria di donne così banalmente disponibili che non capisci se è la visione del primo dei nichilisti o dell’ultimo dei romantici.

Bukowski misantropo più che misogino, apocalittico anacoreta schiantato dai blues spirituali nella sua celletta: “Siete tutti così bravi, così fighi, così giusti, eppure là fuori è ancora pieno di gente di merda”. L’antisociale “Hank”, che quando si sveglia vorrebbe tirarsi le coperte sulla testa: a patto che gli sia rimasta un’ultima lattina della “six pack”, la confezione da sei. Non è colpa sua: il destino gli ha messo sulla schiena una scheggia della Storia che pesa una tonnellata. Nasce cent’anni fa, 16 agosto 1920, ad Andernach, in Germania, dove il papà Henry (americano di sangue teutonico) svolge il servizio militare. La prima guerra mondiale è finita, lo spirito del Kaiser sventrato dall’umiliazione bellica. E la gente ha fame. Henry corteggia una ragazza del posto, Katarina: la conquista con le bistecche rubate per lei nella mensa dell’esercito. La famigliola torna aldila dell’Atlantico con il piccolo Heinrich Karl (il vero nome di Bukowski jr.), ma nel tempo sbagliato della Grande Depressione: bisogna ancora tirare la cinghia. Papà Henry perde il lavoro e un bel po’ di senno, il figlioletto è facile preda dei bulli per l’accento e per quell’accidente di acne che gli devasta la faccia. Ovvio che crescendo, viva la distanza dagli altri come una benedizione: “A volte ho la sensazione di essere solo al mondo. Altre volte ne sono sicuro”, scriverà Bukowski.

Da ragazzo ci mette il carico dichiarandosi nazista, senza neppure sapere cosa significhi, è solo la lontana eco del disprezzo di zio Aldolf per il genere umano. Niente a che vedere con l’adesione dell’idolo Céline a Hitler. Le donne? Ci stanno, ma solo dopo aver bevuto un po’ insieme, magari quel vinaccio che Charles tracanna da quando ha 14 anni. Tutte, si lamenta, pronte a sfiorarti la pelle, nessuna che ti si avvicini all’anima. Ne descriverà a decine, impietosamente, sempre immalinconito dalla depressione post-coitale, l’urgenza sessuale scaricata in fretta come un bagaglio. Una frase torna come un mantra porno: “Mi appoggiai al suo culo caldo, stantuffai un paio di colpi e rotolai di lato”. La tragedia di un (vecchio) porco in una riga. Che spreco di energie vitali. Meglio sbronzarsi. Un giorno del ’55 esagera con l’alcol e finisce in ospedale per un’ulcera. A salvarlo, grazie a una trasfusione, è sorprendentemente l’inaffidabile padre. Hank si rintana nelle stesse stanze decrepite glorificate da quelli della Beat Generation, che però se ne fregano del decoro del riparo di una notte, tanto poi si riparte verso non si sa dove. Bukowski no, è stanziale. Lontano dalle vertigini prosodiche di Kerouac ma anche dai maestri dell’eleganza formale. Ammira lo stile di Hemingway, ma sotto sotto lo giudica un fighetta. Andasse a farsi fottere, “Hem” e la pesca al marlin. Meglio le corse dei cavalli.

Cento dollari al mese. Diventano diecimila ogni due settimane, l’editore mantiene la parola man mano che i libri di Bukowski conquistano il pubblico. Factotum, Donne, i volumi di racconti e poesie. Lo star-system se lo contende come un trofeo: Mickey Rourke lo incarna nel film Barfly, Bono gli dedica il concerto degli U2 al Dodgers Stadium. Lui e la moglie buddista Linda sono in prima fila con Jack Nicholson. Una volta Hank sta male: Elliott Gould e Sean Penn lo trascinano dagli specialisti di Beverly Hills, che non cavano un ragno dal buco. Bukowski porta il gatto dal veterinario, che gli diagnostica la tubercolosi. Malattia da poveri, sconosciuta alle stelle. Chissenefrega, pensa Hank, tanto moriremo tutti. Il suo turno è il 9 marzo 1994. Sulla lapide è scritto: “Don’t try”. Non provarci. Aspetta l’ispirazione. Magari sotto le coperte, con l’ultima lattina.

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