Parenti serpenti

Coca, scazzottate, corna e tanta rabbia: altro che Oasis di pace

Le infinite liti tra i fratelli Gallagher

29 Luglio 2020

Cinque fottutissimi minuti. Se quella sera la Dea della Pazienza non si fosse distratta, la data del 28 agosto 2009 sarebbe stata solo un’altra stazione di posta nel crac emotivo dei fratelli Gallagher. Invece, eccola lì in pezzi la leggenda Oasis, e non solo quella. Quando sullo schermo del festival parigino Rock En Seine compare la scritta: “A causa di un litigio all’interno della band il concerto è cancellato”, Noel è a bordo di un taxi ed è già uscito dal gruppo. Cinque minuti funesti in camerino prima di andare in scena. Liam strimpella la sua chitarra acustica, il fratello lo prende classicamente per il culo: “Lascia perdere”. Il cantante gliela tira addosso, mancandolo. Noel salta sullo strumento e lo distrugge. Liam si fionda sul palco e gli disintegra l’arsenale chitarristico.

Addio Oasis: la faida tra il Piccoletto e il Comandante non troverà mai ricomposizione. Da undici anni va avanti a colpi di tweet all’arsenico e perfide interviste, con rari calumet della pace fumati tra i fans a sperare nella reunion. I bookmaker, dopo aver analizzato un messaggio possibilista di Noel del gennaio scorso, puntano sul 2022, pandemie permettendo. Liam scrive ogni giorno enigmatici post, con lo slang di un inattendibile ubriacone. Per giunta, sostiene di essere perseguitato dallo spettro di Lennon, di cui ode la voce. Prima del redde rationem, il filo scoperto nel dna dei Gallagher non aveva impedito agli Oasis di marcare (con album-pietre miliari come Definitely maybe e What’s the story, morning glory?) il decennio in cui Britannia Felix rivendicava il primato nel rock. I nuovi Beatles? Quasi. I nipotini degli Stones? Allievi, come minimo. I cuginetti dei concittadini Smiths? Sicuro. Si fottessero gli americani, nei Novanta sulla fortezza del r’n’r sventolava di nuovo la bandiera inglese. Il derby era con i londinesi Blur, geniali ma più fighettini dei mancuniani, già contaminati da sangue accidioso dentro la pancia di mamma Peggy, dove filtrava l’eco della violenza di papà Thomas. Stirpe irlandese, genitori proletari andati a cercar fortuna oltre il canale. Quando tornano nell’Isola di Smeraldo con i bambini (tre: il primogenito è Paul, poi Noel, buon ultimo Our Kid Liam), per non dover pagare un biglietto plurimo sul traghetto da Holyhead li nascondono sotto le coperte in auto. Fanculo la povertà. Tom lavora, ma non basta mai. Torna a casa annebbiato dopo il pub e picchia la moglie. Ogni sera. A volte alza le mani pure su Paul e Noel, che diventano balbuzienti. Liam no, è troppo piccolo: un altro dei suoi soprannomi è “Peggy’s shadow”, l’ombra di mamma. Ma quando la donna troverà la forza di separarsi dall’orco, Liam le buscherà pure da lei.

Ne combina troppe: bigia la scuola, mente per negare le zuffe. Scopre l’amore per la musica, racconterà, dopo la martellata in testa da un bullo: Liam si risveglia in ospedale ossessionato da Like a virgin di Madonna. Sarà vero? Di sicura c’è la sua fede (e quella dei fratelli) per il ManCity, che in quegli anni è la squadra degli sfigati: a Burnage, il quartiere dove nacque Roger Byrne, il capitano dello United morto con gli altri “Busby Babes” nello schianto di Monaco nel ’58, tifare per i rivali è un affronto e un sabotaggio nei confronti del padre. Pure Noel, da adolescente, non è uno stinco di santo: ruba, si mischia a una gang di hooligan. A 13 anni si becca una condanna per furto. Sei mesi bloccato a casa, e l’odio edipico va in cortocircuito: Noel afferra la chitarra di papà, gli si apre un mondo. Vorrebbe emulare Johnny Marr degli Smiths, così come Liam resterà folgorato dagli Stone Roses. Manchester ha bisogno della loro rabbia: i Gallagher, zelanti copisti del canone rock, la trasformeranno in un epos. Milioni di ragazzi hanno suonato Wonderwall in ode alla fidanzata; tutti hanno intonato in coro l’inno motivazionale Don’t Look Back in anger, come dopo il minuto di silenzio per le vittime dell’attentato allo show di Ariana Grande nel 2017.

L’idiosincrasia tra Liam e Noel, malgrado 70 milioni di dischi, è frutto delle manie reciproche di protagonismo. Noel è The Chief, quello che ha la musica in ogni poro. Our Kid è il frontman riluttante, che si spintona con l’ex calciatore Paul Gascoigne, o trascina la band in una scazzottata con cinque italiani in albergo, o crea scompiglio durante un volo di linea. Il cuore del conflitto è sul fronte interno. Spesso i parenti-serpenti litigano per le rispettive compagne.

Nel ’97 Liam sposa Patsy Kensit (la ninfetta degli Eight Wonder) e Noel la bolla come una Yoko Ono. Intanto Liam si incasina per conto suo: un mese dopo le nozze gli nasce una figlia da un’altra donna. Finirà male, come anche nella relazione con Nicole Appleton delle All Saints o più recentemente con la compagna Debbie Gwyther, dopo un’aggressione costata al cantante un’accusa per maltrattamenti. Ben prima Liam si era reso imperdonabile, agli occhi di Noel, insinuando che Anais, la figlia avuta dal fratello con Sara MacDonald, fosse di un altro uomo. Mai sublimata, dai Gallagher, l’ottusa eredità dell’insolenza paterna. Meglio, diamine, la provocazione rock. Come la notte in cui Noel si appartò a Downing Street durante un ricevimento del premier Blair. Andò a tirarsi una striscia nella toilette della Regina. Sentendosi onnipotente e impunito.

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