Perché non esiste più il lavoro?

23 Febbraio 2020

La domanda viene continuamente posta, con vero allarme, con finta ingenuità, con moderato interesse. Il più delle volte siamo impegnati (o fingiamo) in una singola, locale protesta, per una fabbrica che non andava affatto male ma ha deciso di “delocalizzare” (una sorta di “serrata”, come direbbe il codice, che nessuno denuncia) e ha portato via i macchinari lasciando gli operai sorpresi dal vuoto, un lunedì mattina. Eccoli a battere tamburi e grida in rima per una quindicina di giorni, col sostegno che non si nega a nessuno, ma non include paghe o liquidazioni.

La risposta sarebbe semplice. Non c’è lavoro perché non c’è vaiolo. Estesissime vaccinazioni nel mondo hanno stroncato l’uno e l’altro male. Per il lavoro la missione di polverizzare la più grande organizzazione umana che ci sia stata dopo gli eserciti leggendari di Ciro, Gengis Khan e la Dinastia Xian, ovvero i sindacati dei lavoratori, non è ancora del tutto finita. Sovietici e cinesi hanno (o avevano) trasformato gli operai in soldati, gli Stati Uniti hanno cooptato (in tanti modi più o meno legittimi) i capi sindacali tra i dirigenti di impresa con relativi bonus, per tutti gli altri è stato molto utile il disprezzo e la denuncia in modo da screditare ogni tentativo sui tre fronti dove la lotta al lavoro finora ha vinto: sempre minore il numero di occupati, sempre più basse le paghe, sempre più alto il proclama “le persone non servono, c’è la tecnologia”.

Ecco i due pilastri dell’ideologia della Brexit secondo Boris Johnson, primo ministro dell’Inghilterra finalmente affrancata dall’Europa, che aveva strane manie di integrazione di scuole, ricerca e lavoro, con libera circolazione dei talenti: “D’ora in poi affidamento su manodopera locale e sulla automazione”. La manodopera locale, se non era al lavoro già prima, accanto agli “stranieri” bene accetti e ben pagati, ovviamente vale meno, dovrà stare al suo posto e non sognarsi di creare nuove trovate sindacali e nuove assurde richieste per il lavoro che costa sempre troppo. Gli ex compagni di costosissime scuole private frequentate da Johnson gli saranno grati per aver dato loro operai di sicuro dialetto locale, bravi nei canti e nelle danze tradizionali, debolissimi nei diritti dei lavoratori, perché sicuri di avere vinto ora che sono (come gli si è fatto credere) soli a comandare, mentre in realtà sono soli a ubbidire alle trovate dei nuovi tagliatori di teste, a mano a mano che si susseguiranno gli accorpamenti tra imprese, che riducono le spese (tanto c’è l’automazione) tagliando di volta in volta il personale.

A questo punto lo sguardo si rivolge al mago di Trump, che ha prodotto un clamoroso balzo in avanti nell’economia americana sei mesi dopo la fine della presidenza Obama. E gli economisti da firma (con l’eccezione del Paul Krugman) hanno preteso di non accorgersi che nessun balzo in avanti avviene in sei mesi e che dunque Trump stava raccogliendo e disonestamente accreditandosi il raccolto di Obama. E continuano a far finta di non vedere che il lavoro, a fine mandato Trump, si allarga per ragioni non nobili: c’è stato un taglio clamoroso delle tasse alle imprese (non ai cittadini) e un generale abbassamento di paghe. Nessuno nega, pur celebrando la presunta vittoria di Trump, che mai, nella storia del lavoro americano, le paghe siano state al livello minimo di questi giorni di fine impero. Intanto Trump studia, ogni due settimane, una nuova politica dei visti che tenga lontani dall’America sia i messicani poveri, che fanno vivere l’agricoltura statunitense, sia i giovani colti che puntano alle grandi università americane. In questo modo priva il Paese di braccia e di teste proprio mentre la grande espansione (sua o di Obama) sarebbe in grado di arricchire il Paese di una straordinaria forza-lavoro a diversi livelli e quasi privi di concorrenza.

Per anni, importanti premi Nobel nella medicina e nelle scienze sono toccati ad americani dal cognome impronunciabile in inglese, ma di nazionalità, studi e genialità americani. Trump sogna un mondo tutto americano (quanto a carte e passaporti) e dunque il contrario di ciò che è stata l’America prima di lui. Nel correre dietro al suo folle sogno, si dà da fare per sradicare il lavoro e in questo modo si mette alla testa del più cieco sovranismo. Sentite come lo imita il governo inglese della Brexit, che può avere la stessa ambizione, ma non ha le stesse risorse. Dice Johnson che d’ora in poi per essere accettati nel Regno Unito dovete avete la preparazione scientifica che si veniva a cercare nel Regno Unito, dovete avere già un contratto di lavoro da almeno 27 mila euro (che è difficile ottenere vivendo altrove) e dovete sapere l’inglese, che era (imparare la lingua) la grande attrazione per lavorare con paghe minime. Come si vede, il sipario di ferro della bassa intelligenza e della estraneità alla cultura e alla storia del sovranismo sta calando di fronte a noi come una pesante cortina. Spezzare il mondo e piegare il lavoro sono i due articoli di fede. Chi pensa di opporsi dovrebbe farlo subito.

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