Partenone e altri capolavori, l’Inghilterra fa orecchie da mercante

20 Febbraio 2020

“Le parti dovranno, in accordo con l’ordinamento dell’Unione, affrontare il tema del rientro o della restituzione degli oggetti culturali rimossi illegalmente dai loro paesi d’origine”. L’articolo 32a della bozza di accordo tra Unione europea e Regno Unito, filtrata ieri sulla stampa, ha subito fatto pensare che ci si riferisse alla annosa questione dei marmi del Partenone, venduti nel 1816 al British Museum dal governo ottomano di occupazione, e oggi rivendicati con forza dai greci. Un sospetto confermato dalla notizia che era stata proprio la Grecia, appoggiata dall’Italia, a chiedere quell’articolo. In realtà, le smentite di Atene sono probabilmente sincere: non si sta pensando di usare la Brexit per sciogliere un nodo che nulla c’entra con l’Unione.

Ma allora perché quell’articolo? Perché è innegabile che la secessione britannica apra delicate questioni nel mondo dell’arte. Una, per esempio, serpeggia a Milano: visto che una sentenza del Consiglio di Stato ha stabilito che i direttori dei Musei nazionali italiani possono non essere italiani solo se sono cittadini europei, il direttore di Brera (che è inglese, e dunque dal 1° febbraio non è più legalmente europeo) ha ancora i requisiti essenziali per coprire quel posto chiave? Ma quel che preoccupa Paesi come la Grecia e l’Italia non è la libera circolazione dei direttori: è quella delle opere d’arte.

Perché, visto che Londra – con le sue case d’asta e gallerie – è l’epicentro del mercato mondiale dell’arte, la Brexit rischia di suonare come un “bomba libera tutti” per i trafficanti che spogliano ogni giorno paesi come il nostro. Se il governo inglese decidesse di garantire alla sua piazza uno statuto da “paradiso legale”, rifiutandosi di sottoscrivere patti di restituzione del maltolto, i risultati potrebbero essere drammatici.

Già oggi le guardie affrontano a mani nude i ladri d’arte (da non immaginare come romantici Lupin: tra loro ci sono mafiosi e terroristi). L’internazionale criminale usa mezzi sofisticati e ignora i confini, mentre le polizie (pensiamo ai nostri eroici carabinieri del Nucleo di tutela) e le magistrature sono frenate da strumenti giuridici antiquati (pressoché impossibile, per esempio, usare le intercettazioni per reati di questo tipo), rogatorie interminabili, resistenze sciovinistiche. Ed è evidente che l’interesse dei Paesi ricchi di opere d’arte e di siti archeologici (Italia, Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo e Francia) diverge da quello dei Paesi “consumatori” (Regno Unito e Olanda su tutti).

Per intenderci, se quell’articolo non passasse negli accordi finali tra Regno Unito e Unione, potrebbe accadere che un busto di marmo barocco sbarbato col piede di porco, da una delle tante chiese di Napoli accessibili solo ai ladri, finisse in vetrina a New Bond Street, senza alcuna chance di far ritorno in Italia anche dopo che il furto venisse scoperto e perseguito dalla nostra magistratura.

Oltre a far pressione sulle trattative, però, ci sono due cose che il nostro governo dovrebbe fare subito: la prima è ratificare la Convenzione di Nicosia, che rafforza molto la protezione internazionale del nostro patrimonio, e che l’Italia non ha assurdamente ancora firmato. La seconda è far approvare finalmente anche al Senato l’ottima legge per la tutela penale del patrimonio che finché Matteo Renzi era presidente del Consiglio rimase in un cassetto, e che invece, al tempo di Gentiloni, i ministri Orlando e Franceschini (e bisogna dargliene atto e onore) portarono all’approvazione della Camera.

Ora quella legge giace al Senato, dopo un incomprensibile sbarramento del Movimento 5 Stelle: è l’ora di approvarla, possibilmente senza annacquarla. Proprio perché l’Inghilterra farà, prevedibilmente, orecchi da mercante dobbiamo rafforzare le difese del nostro patrimonio culturale: se non ora, quando?

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