L’intervista

Foggia, vedova della vittima innocente: “Credevo che la mafia non ci riguardasse: quanto mi sbagliavo”

Arcangela Luciani - Vedova dell’agricoltore ucciso a San Marco in Lamis perché testimone della strage del 2017

21 Aprile 2019

Una foto per immortalare una giornata in famiglia. È il 18 giugno 2017: sarà l’ultimo scatto che Arcangela ha con suo marito Luigi. Un mese e mezzo dopo, il 9 agosto, sotto una pioggia di proiettili, a San Marco in Lamis, quattro persone vengono uccise da un commando armato. L’obiettivo è il boss Mario Luciano Romito, 50 anni, a capo dell’omonimo clan che, negli ultimi anni, si è contrapposto al clan Li Bergolis, nella faida del Gargano. Con lui, c’è il cognato Matteo De Palma. Entrambi muoiono sul colpo. E non sono gli unici. Il commando insegue un furgoncino. A bordo tentano invano di fuggire due contadini, testimoni del duplice omicidio. Sono i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, 47 e 43 anni, che vengono raggiunti e uccisi. Luigi è il marito di Arcangela. Una strage, quella dell’agosto 2017, che ha acceso i riflettori sulla “quarta mafia”, che, indisturbata, è cresciuta nel corso di decenni. Ed è proprio alle indagini partite all’indomani di quel 9 agosto 2017 che si deve anche l’operazione di sabato 20 aprile.

Arcangela, che ricordo ha di quel 9 agosto 2017?
Quella mattina, ho ricevuto una telefonata. Poche parole, confuse. Ho capito solo che dovevo precipitarmi vicino alla stazione. Ho visto mio cognato a terra. Qualcuno mi ha detto che mio marito era accasciato vicino al suo fiorino bianco. Io continuavo a chiamarlo, sicura che sarebbe sceso dall’auto e che mi avrebbe detto che tutto era solo uno scherzo.

Che cosa accadde poi?
Il giorno dopo mi sono ritrovata a casa a cercare Luigi in ogni stanza. Ho continuato per settimane, per mesi. Per me era inaccettabile averlo perso in quel modo. Lo è tutt’oggi, dopo venti mesi.

Fino all’omicidio di suo marito, aveva mai sentito parlare di mafia foggiana?
Ho sempre pensato che la criminalità fosse diffusa, ma fuori da casa mia. Come fosse qualcosa che non mi riguardava, nella convinzione che “finché si sparano tra loro…”. Oggi questa frase che ho ripetuto tante volte mi fa orrore. Quando racconto la mia storia, ora, lo faccio per far capire che la mafia esiste e che uccide. Quella mattina, al posto di Luigi e Aurelio poteva esserci chiunque. Dobbiamo essere uniti: non solo noi cittadini, ma anche le istituzioni, lo Stato. Per fare qualcosa prima che altro sangue di innocenti venga sparso sulla nostra terra.

Pensa che lo Stato stia facendo a sufficienza?
Non sono sufficienti le parole: i nostri giovani hanno bisogno di alternative. Bisogna fornire loro gli strumenti perché decidano da che parte stare. E soprattutto bisogna dare loro un lavoro onesto: in questo, le istituzioni hanno un ruolo fondamentale.

A ottobre scorso, sono stati arrestati due dei 5 colpevoli della mattanza di quel giorno. E l’operazione di polizia di ieri ha contribuito a decapitare i vertici storici dei gruppi criminali foggiani.
Devo ringraziare i carabinieri e i magistrati – i miei angeli custodi – che hanno lavorato e continuano a lavorare per dare un volto agli assassini di mio marito. Il 10 giugno prossimo inizia il processo per le due persone arrestate: ora mi aspetto giustizia nell’aula di tribunale. Attendo che tutti i responsabili siano arrestati. Io voglio guardarli in faccia uno per uno. Solo allora, sarà veramente fatta giustizia.

Lo scorso 16 aprile sono stati celebrati i funerali di Stato del maresciallo Vincenzo Di Gennaro, ucciso a Cagnano Varano, sempre in provincia di Foggia, da un pregiudicato. Anche il maresciallo Di Gennaro ha lasciato sola la sua fidanzata, Stefania Gualano.
In questi giorni sto rivivendo la mia tragedia. Ho riascoltato la stessa frase di allora: “La risposta dello Stato sarà dura”. Ma lo Stato dov’era prima del 13 aprile? Dov’era prima del 9 agosto del 2017, quando sono stati uccisi mio marito e mio cognato? Non basta partecipare ai funerali.

Di Gennaro era prossimo alle nozze, cosa si sente di dire alla sua compagna?
Avrei tanto voluto abbracciarla. Ma ho avuto paura di ritrovare nei suoi occhi il mio dolore. In questi giorni nessuna parola potrà consolarla. Lei attende ancora che il suo Vincenzo torni a casa dal lavoro. Solo con il tempo capirà che non tornerà mai più e potrà decidere se impegnarsi affinché non accada ad altri di vivere lo stesso dolore. Le auguro di trovare questa forza. La stessa, che mi fa andare avanti.

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