Radio Radicale, non capire che cos’è un servizio pubblico

7 Aprile 2019

Il sottosegretario M5S Vito Crimi, che ha la delega per l’editoria, ieri ha spiegato su Facebook la decisione di far chiudere Radio Radicale, dissimulandola con la stessa logica stupefacente usata da Shakespeare nel Mercante di Venezia. Crimi ha un’idea precisa, condivisa dal vicepremier Luigi Di Maio che però, impegnato com’è a farsi “rubare” le foto delle prove su strada della nuova fidanzata, sul caso gravissimo di Radio Radicale – che gli compete direttamente – non ha mai speso una parola. Dice Crimi: “Vogliamo rimuovere il velo di ipocrisia sotto il quale si nasconde l’anomalia di una radio privata che si sostiene esclusivamente grazie ai soldi pubblici”. A questa logica da “fine della pacchia” si oppone un altro parlamentare M5S, il vicepresidente della commissione di vigilanza Rai Primo Di Nicola, molto più titolato di Crimi a parlare di privilegi della casta, visto che per tutta la vita, dalle colonne dell’Espresso, è stato uno dei più spietati ed efficaci fustigatori di furbi e furbetti a spese del contribuente: “Si tratta di un patrimonio che a mio avviso non possiamo assolutamente disperdere”.

Da una ventina d’anni Radio Radicale è effettivamente mantenuta dallo Stato. Ha ricevuto fino all’anno scorso 12 milioni all’anno con i quali ha pagato 75 dipendenti impegnati, come previsto dalla convenzione con il ministero dello Sviluppo economico, a trasmettere in diretta i lavori parlamentari, i congressi di partito e le principali manifestazioni politiche. In più Radio Radicale manda in giro giornalisti e tecnici a registrare convegni, udienze di processi, riunioni del Csm e della Corte costituzionale e mille altre cose che vengono custodite in un archivio liberamente consultabile online.

Già 25 anni fa la Soprintendenza agli archivi del Lazio ha definito l’archivio di Radio Radicale di “notevole interesse storico”. Il suo contenuto è così riassumibile: 540mila registrazioni, oltre 224mila oratori, 102mila interviste, 24mila udienze dei più importanti processi, oltre tremila tra congressi di partiti, associazioni o sindacati, più di 32.000 tra dibattiti e presentazioni di libri, 7 mila comizi e manifestazioni, 22mila conferenze stampa e più di 16mila. Più quasi tutti i lavori d’aula di Camera e Senato dalla fine del 1976.

Definire tutto questo “radio privata” non ha molto senso, come non ha senso l’invito del premier Giuseppe Conte a “cercarsi sul mercato” le risorse per andare avanti. Radio Radicale non ha altre entrate che i 12 milioni ricevuti dallo Stato, il servizio pubblico è l’unico che fa e lo Stato ne è l’unico possibile cliente. Come le cliniche private convenzionate. Dire a Radio Radicale di andare sul mercato è come decidere che da domani la sanità pubblica non compra più gli ecografi e che i privati che li producono devono venderli direttamente ai cittadini, che magari possono organizzarsi per istituire l’ecografo condominiale o di quartiere.

Quando la logica zoppica, e soprattutto quando ci si rifiuta di dare spiegazioni delle proprie scelte (Di Maio ha lasciato cadere una richiesta di incontro dei giornalisti di Radio Radicale), comincia a sentirsi un vago odore di prepotenza. La logica di Crimi lascia senza parole: “Il giorno in cui il governo deciderà di non rinnovare questa convenzione, semplicemente Radio Radicale non dovrà più fornire quel servizio. Pertanto non dovrà più sostenere i costi per quel servizio, e non dovendolo più fornire non sarà più remunerata”. Come Shylock che ad Antonio voleva togliere solo una libbra di carne, non la vita. Il governo Conte non ha deciso di togliere un servizio a Radio Radicale, ha deciso di chiuderla. Senza nemmeno spiegarci perché gli piace tanto un Paese che distrugge la sua memoria.

 

 

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