L’intervista - L’argentina Marta Dillon

Marta Dillon, intervista alla fondatrice di “Ni una menos”: “Da noi la stessa violenza sui corpi disobbedienti”

30 Marzo 2019

C’era il giorno della creazione, nel 2015, del movimento “Ni una menos” in Argentina, ma non chiamatela leader. Marta Dillon, ospite d’onore della mobilitazione transfemminista di Verona, è una giornalista e sceneggiatrice argentina – 52 anni, lesbica, un figlio – che si occupa di femminismo e questioni di genere. Nel 2005 è stata dichiarata ambasciatrice per il diritto alla riproduzione dall’Instituto social y político de las mujeres.

Perché la scelta di venire a Verona?

È necessario opporre una forza femminista a un gruppo, attivo in tutto il mondo, che sta mettendo sotto attacco il corpo delle donne, tornato a essere un campo di battaglia. In Italia come in Argentina, il fascismo si sta riorganizzando e minaccia di eliminare il matrimonio gay o il diritto all’aborto. Si tratta della nostra vita.

Fascismo non le sembra un’esagerazione?

Io chiamo fascisti tutti i movimenti sociali e politici che rivendicano la negazione dell’altro: donne, ma anche gay, lesbiche e trans. E i migranti, specie i neri. Io li chiamo tutti “corpi disobbedienti”. Stiamo assistendo a un crescendo di aggressioni nei confronti di queste persone, con l’illusione di tornare a imporre la supremazia bianca sui sentimenti nazionalisti: a questo dobbiamo opporci.“Ni una menos” non ha frontiere: noi riconosciamo le realtà territoriali, le intersezioni di genere, razza e classe.

Cosa vuol dire per lei essere femminista oggi?

Ho iniziato a considerarmi tale dopo aver scoperto di essere positiva all’Hiv, negli anni ‘90. I vari stigma si sommano: il mio trattamento come donna era diverso da quello degli uomini. Sono figlia di una desaparecida durante la dittatura, in Argentina. Già militavo in varie associazioni per chiedere giustizia, ma c’era qualcosa che mi mancava, un senso di disagio nei confronti del sistema del patriarcato. Il femminismo per me è una necessità, un desiderio di rivoluzione che ingloba tutto il resto.

Parlare di femminismo è anche una moda?

In questo momento ci sono femminismi popolari che hanno moltissima forza: hanno capito che non si può parlare solo di genere e uguaglianza. Perché altrimenti non stiamo cambiando niente.

Tra le battaglie che le donne non hanno ancora del tutto vinto c’è quella per l’aborto.

L’aborto è un punto di conflitto molto forte. Proibirlo o metterlo in discussione è il modo per esercitare un controllo sul corpo di noi donne.

È una guerra tra uomini e donne?

Noi non vogliamo più pensare in termini binari. Non ci sono solo uomini e donne. Nel mondo convivono categorie diverse, diverse forme di amarsi e relazionarsi.

Ma le donne continuano a morire per mano degli uomini…

I femminicidi sono una forma per “disciplinare” le donne. Le donne, le lesbiche, le trans, che si ribellano alla violenza vengono punite una a una. I nemici sono nei luoghi più vicini a noi, a partire dalle nostre case, a partire dalle nostre famiglie.

Qual è la sua idea di famiglia?

Io sono orfana e sono cresciuta con molti altri orfani. Figlio e figli per me sono legami che si creano e la famiglia è un sistema di solidarietà.

E quella di chi partecipa al Congresso di Verona?

È esattamente il contrario: una famiglia basata sul sangue, sull’eterosessualità “obbligatoria” e che si organizza su base piramidale, come vuole il patriarcato. C’è un capo famiglia, le donne hanno un ruolo stabilito e i bambini sono proprietà di papà e mamma.

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