Caro Minniti, cosa sapeva delle sofferenze di Sacko?

10 Giugno 2018

“In Calabria, Salvini sarebbe dovuto andare già da tempo perché l’omicidio di Sacko Soumaila è un fatto gravissimo. In queste circostanze il ministro degli Interni prende un aereo e va sul posto”.

Marco Minniti ospite di “Piazza Pulita”

Sono sicuro che molti di noi rimpiangeranno Marco Minniti al Viminale, e l’altra sera le osservazioni che ha rivolto al suo successore Matteo Salvini sull’immigrazione clandestina (presto si accorgerà che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, Mediterraneo) ci sono apparse impeccabili. E tuttavia (come lui direbbe) l’impressionante servizio sulla baraccopoli di San Ferdinando (Reggio Calabria) dimora del sindacalista assassinato Sacko Soumaila, suscita alcune domande che gli giro da questa rubrica contando sulla sua cortesia.

Come è stato possibile che, chissà da quanti anni, una moltitudine di esseri umani (regolari, irregolari, chi può dirlo?) siano stati costretti a vivere, anzi a sopravvivere e vegetare, in condizioni subumane? In un luogo privo dei più elementari servizi igienici (latrine a cielo aperto), immerso nella melma, esposto alle intemperie, sotto tetti di cartone che il povero Sacko cercava di sostituire con quel pezzo di lamiera che ha pagato con la vita?

Ora è pur vero che la banalità del degrado ci circonda tutti quanti e che davanti a essa spesso preferiamo distogliere lo sguardo. Quando sui marciapiedi delle grandi città passiamo accanto ai fagotti umani buttati in un angolo o ripiegati su se stessi per strapparci un’elemosina di pietà. O quando dall’autostrada gettiamo uno sguardo distratto sui fortilizi dell’abbandono costruiti sui rifiuti, chiamati campi rom.

Ma se il nostro senso della vergogna non risponde più al riflesso dell’umana misericordia, peggio per noi. E se la nostra protesta civile si limita allo sdegno per una frase detta o non detta o detta male da un premier improvvisato, peggio per noi. E peggio per noi se necessita che a un giovane uomo del Mali venga spappolata la testa da una fucilata per accorgerci che non lontano da un’altra autostrada, laggiù nei campi, un esercito di schiavi si spezza la schiena per un lavoro e una paga che nessun italiano tra quelli che gridano “prima gli italiani” potrebbe mai accettare.

Ma se davanti allo scempio e alla vergogna chi avrebbe dovuto fare qualcosa, per dovere d’ufficio o per responsabilità istituzionale, non ha mosso un dito, il problema, ne converrà onorevole Minniti, è molto, molto diverso. Per essere più precisi: chi sarebbe dovuto intervenire per sottrarre i corpi di quella umanità alla melma offrendo loro un rifugio non di cartone o di lamiera. Il sindaco? Il prefetto? Il governatore della Calabria?

E l’allora ministro degli Interni, figlio di quella terra, in che termini fu messo al corrente dell’esistenza di un posto simile (e di quanti altri ancora) emblema di illegalità e di ingiustizia? E in caso affermativo quale fu la sua reazione? Non è un interrogatorio, ci mancherebbe, ma una richiesta di conoscenza rivolta a chi ha cercato di governare questa complicatissima materia. Leggere, infine, che il campo profughi “doveva essere smantellato ma è rinato sulle ceneri di se stesso perché la tendopoli più vivibile costruita dall’altra parte della strada non può contenerli tutti” (“Corriere della Sera”) rende tutto più inaccettabile. Perché quando lo Stato allarga le braccia subito c’è qualcuno che arriva con la ruspa.

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