Tim, Cassa depositi e prestiti caccia Bolloré. Vince il ‘mercato’ ma grazie allo Stato

5 Maggio 2018

L’inesauribile capacità del capitalismo italiano di tradurre in disastri le soluzioni teoricamente migliori, e viceversa, rende impossibile ogni pronostico. Ma la svolta di ieri rimarrà comunque nella storia. Il fondo speculativo americano Elliott di Paul Singer ha tolto alla Vivendi di Vincent Bolloré il controllo di Tim (Telecom Italia). La sua lista per il nuovo cda è stata votata dal 49,84 per cento delle azioni presenti contro il 47,18 ottenuto dalla lista di Vivendi. Decisivo il voto della Cassa Depositi e Prestiti (4,8 per cento delle azioni). Entrano nel cda i dieci candidati di Elliott e solo cinque della lista Vivendi. Tra loro il presidente uscente Arnaud de Puyfontaine e l’amministratore delegato Amos Genish. Lunedì il nuovo cda nominerà presidente l’ex numero uno di Enel Fulvio Conti (70 anni, rottamato da Matteo Renzi nel 2014, rilanciato ieri dal governo Gentiloni) e, salvo sorprese, confermerà Genish come amministratore delegato.

Al vicepresidente Franco Bernabè – che, non rieletto in cda, al termine dell’assemblea ha detto addio per la terza volta a Telecom Italia – sono bastate tre ore per sbrigare la pratica. Nessun esponente di Vivendi e Elliott ha preso la parola, silenzio della Cassa Depositi e Prestiti. Questi soloni della trasparenza e della democrazia economica parlano in posti che conoscono solo loro. Così il dibattito è rimasto nelle mani dei professionisti di assemblea, tra i quali va segnalato, come segno dei tempi, Marco Bava, disturbatore con curriculum pluridecennale.

Dopo aver chiesto ripetutamente all’israeliano Genish se avesse rapporti con il Mossad (servizio segreto del suo Paese), ha insinuato che l’ad e lo stesso Bernabè fossero al servizio di interessi stranieri e “delle lobby ebraiche”, argomento orrendamente sdoganato dalla nascente Terza Repubblica. Bernabè ha stigmatizzato “gli interventi deplorevoli e inaccettabili anche di tipo antisemita, che non si erano mai sentiti in questa assemblea”. L’annuncio della vittoria di Elliott è stato accolto con boati da stadio, perché questo è ormai lo stile della classe dirigente italiana, anche nei santuari del potere finanziario. Bernabè è stato costretto ad apostrofare le grisaglie festanti: “Signori azionisti, non è che siamo alla curva sud”.

Il ribaltone va analizzato lungo due linee contrastanti. La prima è positiva. Per la prima volta in Italia c’è una vera public company, una grande società quotata senza l’azionista di controllo che anche con una quota minoritaria del capitale (Vivendi ha il 24 per cento di Tim) dà ordini ai manager. Public company in inglese non vuole dire statale ma “del pubblico degli investitori”. Si chiude così il ventennio dei “nocciolini” durante il quale l’azienda telefonica è stata ridotta in condizioni preoccupanti da azionisti di controllo che l’hanno usata per farsi gli affari propri o più direttamente per spolparla. Da lunedì il cda non prenderà ordini da nessuno (almeno si spera) e dovrà servire solo l’interesse dell’azienda e del Paese.

La seconda chiave di lettura è controversa. Il portavoce di Vivendi, Simon Gillhad, a fine assemblea protesta: “Non è stata una vittoria decisa dal mercato”. Infatti la contesa tra azionisti privati è stata decisa dal voto della Cdp che ha agito su mandato del governo Gentiloni. Dice Gillhad: “Ci domandiamo come un azionista controllato dal governo, con soldi pubblici, possa votare per un fondo speculativo americano”.

Il paradosso è evidente. La public company è la pietra angolare di un mercato finanziario evoluto. Tim lo diventa a vent’anni dalla privatizzazione e grazie allo Stato che, attraverso il presidente della Cdp Claudio Costamagna, compra con circa 800 milioni di euro presi dal risparmio postale le azioni decisive per far fuori dal controllo dell’azienda telefonica il finanziere bretone Vincent Bollorè.

Il futuro rimane incerto. Sul destino della rete telefonica l’amministratore delegato Genish ha trattato fino a ieri con il governo e su mandato di Bolloré. Da lunedì l’unico azionista a cui dovrà rendere conto è lo stesso governo che tratterà con lui come ente regolatore. E Cdp è anche azionista, insieme all’Enel, della rete Open Fiber che il governo vuole fondere con la rete Telecom. Al capitalismo straccione degli spolpatori si sostituiscono i conflitti d’interessi dello Stato azionista. Però, in mancanza di imprenditori decenti, tocca di nuovo al governo (che nemmeno c’è) indicare la strada che ci porti verso un capitalismo moderno. E la strada più breve sarà il solito arabesco, come direbbe Ennio Flaiano.

Ti potrebbero interessare

Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione