Aldo Moro, il caso – Doccia, parrucche e Sisde: sceneggiata in via Gradoli

20 Aprile 2018

Per Eleonora Moro la notte del 17 aprile 1978 dovette essere più tormentata del solito perché ambienti vicini alla famiglia ricevettero quel giorno una strana telefonata anonima: “Va bene avete vinto, ve lo restituiremo impacchettato”. A turbare ulteriormente la donna era la coincidenza l’indomani con l’anniversario del 18 aprile, il trentennale della vittoria democristiana del 1948 contro il Pci. Sempre la sera del 17 aprile nel covo di via Gradoli, Mario Moretti, dopo avere mangiato con Barbara Balzerani uno spezzatino con carote, andò a dormire senza lavare i piatti che lasciò sporchi nel lavandino della cucina. L’indomani la sveglia sarebbe suonata presto perché il capo delle Br doveva prendere il treno per recarsi alla riunione del Comitato esecutivo. Moretti ha sempre dichiarato che la mattina del 18 aprile uscì di casa verso le 7.00 con la Balzerani. Intorno alle 7.30 un trapestio di passi frettolosi svegliò l’inquilina del piano di sotto che alle 8.00 si accorse di un’abbondante perdita d’acqua presente nel proprio appartamento. La donna contattò l’amministratore, questi l’idraulico che provò senza successo a entrare dalla porta corazzata della casa e alle 9.47 vennero chiamati i vigili del fuoco che riuscirono a entrare nell’abitazione rompendo una finestra del terrazzo.

Nel frattempo, alle 9.30, una telefonata anonima fece ritrovare nel quartiere romano di Trastevere un comunicato brigatista, che si sarebbe rivelato falso, in cui si annunciava la morte di Aldo Moro nei fondali del lago della Duchessa.

Il capo squadra dei vigili del fuoco Giuseppe Leonardi, il primo pompiere a entrare nel covo di via Gradoli, si diresse subito verso il bagno. Lì trovò il telefono della doccia aperto con un gettito forte appoggiato su un manico di scopa sistemato di traverso nella vasca in modo da far penetrare l’acqua dentro una fessura del muro che era l’evidente origine dell’infiltrazione. Chiuse l’acqua e ricollocò nella sua sede il telefono della doccia, che in seguito la polizia scientifica avrebbe fotografato in quella tranquillizzante posizione, avendola così ritrovata.

La sequenza descritta da Leonardi è decisiva perché se è possibile, per quanto difficile, dimenticare aperto con getto forte il telefono di una doccia, il fatto che esso fosse sostenuto dal manico di una scopa con la funzione di indirizzare l’acqua in una fessura del muro rivela in maniera inequivocabile l’intenzionalità della situazione.

Tale ricostruzione dei fatti è chiarita in modo univoco dalla testimonianza giurata del vigile del fuoco Leonardi, rilasciata il 22 settembre 1982 davanti al magistrato (“nel bagno c’era una doccia con il rubinetto aperto. La doccia era messa in modo che l’acqua andava verso il muro e vi si infiltrava”). Essa merita di essere messa in risalto in quanto, nel corso dei quarant’anni successivi, autorevoli esponenti del governo come Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, alti dirigenti di polizia come Giuseppe Parlato ed Emanuele De Francesco, noti brigatisti come Mario Moretti, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Antonio Savasta e celebri giornalisti come Indro Montanelli e Rossana Rossanda hanno tutti sostenuto o avallato una tesi opposta, accreditando cioè l’idea di una perdita d’acqua casuale. Di conseguenza, per tutti costoro la caduta del covo di via Gradoli non sarebbe stata un’operazione volontaria, coordinata al minuto con la contemporanea scoperta del falso comunicato del lago della Duchessa, ma un inaspettato colpo di fortuna sia per le forze di polizia che avrebbero così scoperto, a causa di una fuga d’acqua accidentale, la principale base romana delle Br, sia per Moretti sfuggito per un soffio alla cattura. Alla luce della sequenza di questi eventi, l’annosa polemica da molti sollevata sulla presunta imperizia della polizia italiana, che avrebbe dovuto tenere riservata la notizia della scoperta del covo per provare a catturare al loro rientro i brigatisti, appare infondata.

Infatti, chi fece cadere la base con queste modalità aveva un duplice obiettivo che soltanto così avrebbe potuto centrare: avvertire minacciosamente Moretti senza però provocarne l’arresto (esattamente come già era avvenuto con la soffiata del 2 aprile 1978 che aveva dato origine alla seduta spiritica sul nome di Gradoli in provincia di Viterbo), ma soprattutto divulgare al massimo la scoperta della base presso le forze dell’ordine e l’opinione pubblica nazionale e non certo occultarla. Appunto per questo motivo chi agì utilizzò lo stratagemma della fuga d’acqua, invece che la solita telefonata anonima alla polizia, in modo che i primi a intervenire fossero i vicini, eventualmente un idraulico o i vigili del fuoco, come di fatto avvenne, e perciò la notizia diventasse immediatamente di dominio pubblico. Accanto alla testimonianza di Leonardi anche una seconda prova logica rivela l’intenzionalità e non la casualità della scoperta del covo di via Gradoli. In effetti, i verbali e le foto della polizia descrivono a ogni passo, secondo prassi, lo stato in cui il covo venne da loro ritrovato. Se quella mattina nell’appartamento non fosse avvenuto nulla di anomalo è inconcepibile ritenere che Moretti e Balzerani, contravvenendo alle più normali regole di sicurezza, avessero lasciato la casa nelle condizioni in cui i pompieri la ritrovarono. Difatti è impossibile che in una normale notte della loro militanza brigatista avessero dormito con bombe a mano, cartucce e detonatori elettrici sparsi “nello spazio compreso tra i piedi del letto e la porta del bagno”, con un cassetto rovesciato sul letto contenente pistole, mitragliatrici e tutta una serie di attrezzi del mestiere (parrucche, baffi finti, palette della polizia, manette, targhe false) sparsi in disordine per la casa affinché il primo che vi entrasse avesse la certezza di trovarsi proprio dentro un covo brigatista e quindi avvertisse soltanto in seconda battuta la polizia.

Quei verbali e quelle foto costituiscono la prova che il covo di via Gradoli subì un’attenta ispezione tra le 7.30 (l’ora in cui l’inquilina di sotto ebbe la percezione di apertura-chiusura della porta del covo e di udire un rumore di passi frettolosi proveniente dall’appartamento) e le 8.00 (il momento in cui la donna si accorse dell’infiltrazione d’acqua).

A questo proposito è utile ricordare che nell’appartamento adiacente a quello del covo risiedevano un’informatrice delle forze dell’ordine e il suo compagno, il quale dichiarò di essere domiciliato presso lo studio di un commercialista, sito in via Ximenes 21. Oggi sappiamo che questo appartamento era di proprietà della società Monte Valle Verde srl e il 21 aprile 1978, tre giorni dopo la caduta dell’attiguo covo delle Br, proprio quel commercialista fu nominato amministratore di quella società intestataria di altri 8 appartamenti siti in via Gradoli 96.

Egli sostituiva il precedente amministratore che era stato il fondatore, il 1° marzo 1975, della Sofigen Società fiduciaria generale spa, mutata il 28 giugno 1984 in Nagrafin spa, da cui a sua volta, l’11 aprile 1989, sarebbe scaturita la Capture Immobiliare srl, che l’11 gennaio 1994 venne messa sotto sequestro dalla magistratura per lo scandalo dei cosiddetti “fondi riservati” del Sisde. Un’inchiesta giudiziaria irrituale, certamente non preventivabile nel 1978, che soltanto allora rivelò questa genealogia sommersa che collegava i proprietari di quell’appartamento attiguo al covo di via Gradoli con dei fiduciari del servizio segreto civile.

Questi dati sono importanti perché le modalità di caduta della base di via Gradoli. implicano la presenza di un punto di osservazione sicuro e stabile in prossimità del covo. Una postazione che permettesse di controllare, senza essere visti, i movimenti degli occupanti in ingresso e in uscita così da cogliere il momento giusto per potervi accedere quando era certamente vuoto, oppure avvertire chi fosse stato preposto a compiere quella delicata operazione di controguerriglia psicologica.

Per capire cosa si cercasse all’interno del covo è sufficiente leggere, esattamente come poterono fare gli inquirenti dell’anti-terrorismo in quei giorni traendone le dovute conseguenze, l’ultimo comunicato dei brigatisti del 15 aprile in cui si annunciava la fine dell’interrogatorio di Moro, la sua condanna a morte e la diffusione delle “informazioni” acquisite con il sequestro “attraverso la stampa e i mezzi di divulgazione clandestini delle organizzazioni combattenti”. Quindi, chi quella mattina entrò in via Gradoli – non sappiamo se un brigatista dissidente, un esponente dell’area dell’autonomia collaborativo con lo Stato o un agente dell’antiterrorismo – aveva anzitutto l’obiettivo di provare a recuperare gli scritti di Moro che sperava fossero ancora nell’appartamento.

In secondo luogo, non puntava alla cattura di Moretti, verosimilmente temendo le tragiche e immediate ricadute che ciò avrebbe comportato sull’incolumità dell’ostaggio, il quale ovviamente era tenuto in un luogo separato dalla produzione dei suoi scritti, ma era interessato a fargli capire che l’operazione Moro, sul piano militare, era fallita. Di conseguenza, sarebbe stato meglio liberare il prigioniero dopo un’opportuna trattativa segreta, riguardante anche il recupero del memoriale e l’eventuale documentazione sensibile entrata in possesso dei sequestratori dopo l’apertura di un canale di ritorno riservato a partire dal 29 marzo 1978, dagli stessi brigatisti imposto e tutelato. Bisognava cioè provare a spezzare, anche logisticamente, la catena che legava la dimensione del sequestro di persona a quella spionistico informativa attivata dai brigatisti medesimi, esercitando una decisa pressione su di loro.

Moretti, e in scia tutti i brigatisti interessati alla vicenda di via Gradoli, hanno fatto di tutto per accreditare la falsa versione della scoperta casuale del covo. Il motivo è presto detto: Moretti ha ragione quando ha sostenuto, intervistato da Rossana Rossanda nel 1994, che era assurdo ridurre “questa storia, che per molti versi è una tragedia, a una faccenda di tubi di scarico, di docce, di cessi”, aggiungendo di essersi ormai rassegnato a dover rispondere per il resto dei suoi giorni alla domanda sul perché quella doccia sgocciolava proprio il 18 aprile e concludendo, con l’alterigia di un vecchio leone ormai in gabbia: “Non lo so, lo giuro, avrò lasciato aperto un rubinetto, oppure l’ha fatto Barbara Balzerani, che è una donna straordinaria, ma di mattina è sempre insonnolita. Accetto qualunque ipotesi, purché si smetta di chiedermelo”. In questo modo, però, egli preferiva fare finta di non capire, forte della compiacenza dell’intervistatrice, che il problema non era tanto costituito dall’acqua che filtrava, ma dalle modalità con cui ciò era avvenuto.

Peraltro, se si confronta il testo dell’intervista pubblicata nel 1994 con la bobina della registrazione del colloquio effettuata di nascosto dai servizi segreti in prigione nell’estate 1993, traspare in modo evidente il travaglio, anche a livello psico-linguistico, del capo dei brigatisti al riguardo della caduta di via Gradoli e il fatto che egli preferisca rimuovere quell’episodio dal suo vissuto e dall’esperienza politico-militare dell’organizzazione, a cui, effettivamente, la vicenda appartiene soltanto in parte e in modo indiretto e passivo. Com’è comprensibile egli è soprattutto interessato a difendere l’onorabilità sua e delle Brigate rosse dal sospetto che a provocare la scoperta della base potesse essere stato lui, ufficialmente l’ultimo a uscirvi, o dei brigatisti dissidenti che vi avevano abitato in passato o avevano effettuato turni di guardia all’esterno durante il sequestro Moro e dunque ne conoscevano l’ubicazione.

Peraltro, se Moretti affermasse di avere subito capito, o almeno sospettato, le effettive modalità della caduta del covo di via Gradoli, sarebbe conseguentemente costretto ad ammettere che Moro, per elementari norme di sicurezza, dopo la giornata del 18 aprile, cambiò il luogo della sua prigionia.

Infatti, allorquando Moretti fu raggiunto anche dalla contemporanea notizia del comunicato del lago della Duchessa, dell’inautenticità del quale egli, a differenza dell’opinione pubblica italiana, era da subito necessariamente avvertito, come avrebbe potuto escludere che esso non era direttamente collegato alla parallela scoperta del covo di via Gradoli e non fosse quindi il minaccioso segnale di oscure manovre in atto nel fronte dell’anti-terrorismo? E da questa semplice constatazione, come avrebbe potuto continuare ad avere la certezza che il “carcere del popolo” fosse ancora sicuro ed escludere di non essere stato pedinato mentre lo raggiungeva muovendosi proprio da via Gradoli? Insomma, cedere proprio su questo decisivo aspetto, su cui, non a caso, le versioni e le propagande del fronte terrorista e di quello dell’antiterrorismo convergono in una medesima eterogenesi di fini, significherebbe essere costretti, ancora oggi, a contribuire al racconto di una verità storica credibile sul periodo del sequestro cominciato con la decisiva giornata del 18 aprile e terminato il 9 maggio 1978 con la morte dell’ostaggio, la scomparsa degli originali dei suoi scritti ed, eventualmente, dei documenti sensibili che l’antiterrorismo sospettava avessero varcato la soglia della prigione. Perché quella catena che unisce il sequestro di persona alla sua dimensione spionistico-informativa, proprio come la poesia di Eugenio Montale, ha “un anello che non tiene. Il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”. L’anello è via Gradoli, il filo il falso comunicato del lago della Duchessa di pochi minuti successivo, su cui dovremo ritornare.

(6 – continua)

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