Paolo Gentiloni, il coniglio più mannaro di tutti

26 Ottobre 2017

Se Arnaldo Forlani fu il Coniglio mannaro della Prima Repubblica, Paolo Gentiloni potrà a buon diritto venire ricordato come il Coniglio mannaro del Terzo millennio. All’ex leader democristiano il soprannome fu affibbiato dal giornalista Gianfranco Piazzesi che lo mutuò dal personaggio descritto da Riccardo Bacchelli nel Mulino del Po, per definire la sintesi tra un aspetto quanto mai infelice e dimesso e comportamenti sommamente spregiudicati.

Fatto sta che pur non facendo prigionieri nella scalata che lo portò ai vertici dello Scudo Crociato, e quindi di Palazzo Chigi, l’ex centrocampista della Virtus Pesaro mai avrebbe osato neppure concepire di poter imbavagliare e ammanettare il Parlamento imponendo, hic et nunc, la fiducia sulla legge elettorale. Che è come truccare una partita di calcio chiedendo ai giocatori avversari di giocare bendati e senza portiere. Tanto che ci piace pensare che se qualcuno lo avesse costretto a porre non uno o due ma ben otto voti di fiducia tra Camera e Senato, il Coniglio Arnaldo avrebbe esclamato: no, basta, questo è troppo perfino per la mia natura mannara. Mentre nel concedere l’ok alla strage di democrazia, il Coniglio Paolo si è semplicemente girato dall’altra parte. O forse come il palo nella banda dell’Ortica di Enzo Jannacci: “Lui era fisso che scrutava nella notte perché vederci non vedeva un’autobotte però sentirci ghe sentiva un acident”.

Nella nostra cecità, invece, cessato il flagello renziano avevamo accolto con sollievo l’avvento della bimurti Mattarella-Gentiloni, coltivando l’idea che il Paese stremato dall’incessante e sterile bla bla rignanese necessitasse di una premurosa (e soporifera) pausa democristiana. Per la verità, a differenza dell’inquilino del Quirinale, ben radicato nella nobile cultura politica che va da Don Sturzo ad Aldo Moro, le frequentazioni giovanili dell’attuale premier furono soprattutto di stampo extraparlamentare e terzomondista. Perciò avevamo immaginato che l’infante Paolino fosse stato concepito nel segreto di una sacrestia e solo dopo mirabolanti avventure che lo avevano sballottato da una Casa del popolo al covo katangese del Movimento Studentesco fosse stato accolto, come nei migliori feuilleton, nella severa magione dei conti Gentiloni Silveri, nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata timorati di Dio.

Nell’ammirarlo sempre così cauto e felpato attraversare ogni burrascosa temperie, evitando trappole e inciampi, non riuscivamo a collegare tanto accomodante buon senso con lo stile piuttosto manesco dei sessantottini. Altro che Guevara e Rudi Dutschke, il Contino sembrava spiccicato Ernesto Calindri che nel famoso Carosello, seduto a un tavolino mentre bolidi e velocipedastri gli sfrecciano intorno, sorseggia un aperitivo al gusto di carciofo contro il logorio della vita moderna. Evidentemente nel nostro immaginifico avevamo sottovalutato, all’origine, il fattivo contributo del sagrestano. Dimenticavamo infatti che pur nell’apparente bonomia, la malvissuta Dc quanto a lame e veleni non si era fatta mancare nulla. Ma sempre con l’accortezza di cancellare, dopo, ogni traccia dell’avvenuto misfatto. O se necessario di appiopparla all’incolpevole maggiordomo. Purtroppo nel caso della nefanda legge elettorale assistiamo sgomenti a un improvvido rovesciamento di ruoli. Dove il maggiordomo Renzi accoltella la Costituzione. Ma è il conte Gentiloni a ritrovarsi tra le mani il pugnale lordo di sangue.

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