“In Russia mi sono finto parente di Al Bano, ed è stato un successone”

C’è chi in oratorio andava per giocare a pallone, per fuggire alla strada, per trovare degli amici, o perché naturale prosecuzione del catechismo. C’è chi in oratorio andava perché era, a volte è ancora, l’unico luogo, senza alternativa; c’è chi in oratorio andava per scappare dalla paura, e invece c’è chi la paura la sperimentava: “Una volta la suora mi beccò mentre raccontavo una storia da brividi ai miei amici. Con il dito puntato mi disse: ‘Tu Donato hai l’angelo custode cattivo’. Io sorrisi”. Quel sorriso, per Donato Carrisi, si è tramutato in romanzo, in thriller; oramai i suoi libri sono tradotti in 43 Paesi, milioni e milioni di copie, con tanto di endorsement di sua maestà Ken Follett: “Un suo tweet d’apprezzamento mi ha aperto degli orizzonti importanti…”.
Uno scrittore precoce…
No, in realtà ho iniziato con il teatro, era la mia passione, poi la radio, e nel frattempo scrivevo dei testi per Domenico De Pasquale (di Fabio e Mingo, gli ex inviati di Striscia la notizia).
E poi?
Nel frattempo ero impegnato con la pratica legale, tradizione di famiglia, quindi avevo una responsabilità, e l’ho portata fino in fondo, con tanto di laurea. Ma una sera, a tavola con i miei, vedo una fiction: Un prete tra noi, con protagonista Massimo Dapporto. In una scena va da uno sfasciacarrozze, dove trova un anziano molto dimesso, e questo personaggio, questa comparsa, mi suscita tenerezza. La notte scrivo un soggetto di cinque pagine, Lobos (Lupi); la mattina mi piazzo dentro una cabina, pagine bianche in mano, e cerco Roberto Pace, all’epoca presidente di Mediatrade.
Sembra una fiction statunitense…
Alla fine rispondono e mi passano una segretaria-filtro, e con un atteggiamento di prassi mi invita a spedire il materiale. Obbedisco. Tempo dopo ho scoperto che era la collaboratrice di Simone De Rita, dirigente Mediaset. Comunque quattro mesi dopo la signora mi richiama: “Il dottore ha letto la sua storia, per noi non va bene, troppo cruenta, però De Rita le consegnerà una lettera di raccomandazione insieme a cinque indirizzi utili”.
La fiction Stelle e Strisce continua…
Tre di quei cinque mi danno appuntamento. Così arrivo a Roma, in tenuta d’avvocato: cappottino grigio, borsa 24 ore nella mano destra, cravatta con nodo stretto. Al terzo colloquio affronto Achille Manzotti, proprio il produttore di un Prete tra noi: “Bravo, bellissimo soggetto, ti faccio parlare con il mio produttore esecutivo”. Io stordito e felice. Mi giro e ritrovo lo stesso attore che interpretava il proprietario dello sfasciacarrozze: il produttore era proprio lui, Claudio Mancini, storico collaboratore di Sergio Leone, prestato alla recitazione. Da lì è partita la mia carriera di sceneggiatore per la Rai…
“Lobos” che fine ha fatto?
Prima di morire Achille Manzotti mi disse: “Deve diventare un romanzo”. Bene. Quelle cinque pagine sono esattamente la parte iniziale de Il suggeritore.
Fortuna e talento…
No, la faccia da culo è la mia dote migliore.
Al liceo come andava in italiano?
Bene, anche se nei temi in classe prendevo quasi sempre sei. La mia professoressa è stata la stessa di Mario Desiati (autore per Mondadori e Laterza), anche lui poco apprezzato; insomma, la professoressa ha sbagliato con due scrittori.
Ha riletto i suoi temi?
Sì, ero molto fantasioso. Mi ricordo una traccia: “Immagina un viaggio”, e io ho scritto il viaggio nel testo che stavo scrivendo. La docente disse a mia madre: “Suo figlio legge troppo”.
Lei è stato spesso accostato a Giorgio Faletti.
Gli sarò debitore a vita, è lui ad aver creato un pubblico italiano per il thriller, anche se non è stato il primo caso: chi ha aperto le porte è sempre Umberto Eco con Il nome della rosa, senza il quale Dan Brown non sarebbe esistito.
Folgorato da “Io uccido”?
No, in quel libro non ho creduto subito, per me un comico non poteva diventare un esperto di thriller. La mia passione è scattata con la seconda opera di Giorgio, Niente di vero tranne gli occhi, poi ho ripreso Io uccido e ho deciso la mia strada.
Lei e Faletti…
Amici veri. Era una persona straordinaria. Un giornale provò a metterci l’uno contro l’altro, e non era ancora uscito Il suggeritore: “Attento Faletti, arriva Carrisi”. Gli scrissi una lettera nella quale gli spiegai che per me lui era un maestro, e senza alcuna discussione. Mi rispose immediatamente. Da allora mi ha adottato, quando presentava i suoi libri citava anche il mio, stessa cosa quando è andato ospite a Canale 5 per Matrix. Una generosità non comune.
Lei ha venduto milioni di copie, eppure non ottiene molti premi letterari.
Ho vinto il Bancarella all’esordio.
Difficile non darglielo. Ma oltre a quello…
Cosa le posso dire?
Veda lei…
Se mi dessero lo Strega sarei felicissimo di prenderlo, però c’è una parola che a molti sembra una reale bestemmia…
La pronunci…
Io sono e resto commerciale.
Per lei è un valore.
Assoluto. Nel senso che puoi raggiungere un pubblico ampio, persone che non avresti mai pensato di incontrare nella tua vita. Tra lo scegliere di restare confinati tra pochi, ma dall’ottimo palato, e scendere dall’aereo in Corea e essere riconosciuti, scelgo questa seconda.
Ogni riferimento è puramente casuale?
No, fattuale. E non solo in Corea.
Altri Paesi-estimatori?
Come le dicevo mi pubblicano in 43 nazioni, soprattutto Francia, Inghilterra, Giappone, Vietnam, Russia…
In Russia un suo omonimo è molto celebre.
E che non lo so? Arrivo a Mosca per una presentazione e trovo più di duemila persone ad aspettarmi. Io esterrefatto e compiaciuto: “Ammazza che successo!”, dico. A un certo punto l’interprete annuncia: “Ecco a voi Donato, il figlio di Al Bano…”
E lei?
Prendo la parola e improvviso: “Papà vi saluta”.
Sempre “faccia da culo”…
Ad Al Bano ho confessato la verità.
Cosa le ha risposto?
Semplice: “Hai fatto benissimo”.
Il primo libro letto?
A 12 anni un romanzo della serie Harmony, preso a una mia zia zitella.
Ancora prima?
Solo fumetti. Dopo l’Harmony sono partito con i gialli di Agatha Christie.
I suoi status symbol quando andava a scuola…
Vestiti cult degli anni Ottanta: la felpa Best Company e la cinta de El Charro, e come piumino una copia del Moncler. I miei non potevano spendere molto, sono insegnanti.
Le pesava?
No, è stata anche la parte più divertente della mia vita.
Da che punto di vista?
La conquista, l’obiettivo, i sogni da realizzare. Ho sempre rimandato le questioni sotto l’egida “dell’arriveranno tempi migliori”. Ed è questa la parte più stimolante: quando ho scritto il Il suggeritore mi sono divertito da matti, e avevo scelto di abbandonare ogni sicurezza, compresa la televisione.
Da Martina Franca è arrivato a Roma: primo impatto?
Una casa in Corso Francia, visitata di giorno perché il proprietario non dava appuntamenti dopo l’imbrunire. Poi ho capito il motivo.
Quale sorpresa?
La sera diventava un punto di raccordo tra una colonia rom e un gruppo di transessuali dediti alla prostituzione, una comunità molto divertente, una di queste trans cucinava in maniera meravigliosa; ma dopo sei mesi ho abbandonato: non dormivo.
Da ragazzo era rissoso?
Abbastanza. Sono un tipo incazzoso. Ma non ho il fisico per reggere la mia indole, così spesso le ho prese, non mi sono mai tirato indietro davanti a quelli più grossi.
Quindi è coraggioso…
No, un cagasotto. A volte, quando scrivo, non devo stare solo in casa, se lo sono chiamo uno dei miei amici. Insomma, ho bisogno di compagnia.
Addirittura…
Lei comprerebbe una bistecca da un vegetariano?
Improbabile…
Se non provo la paura, come posso trasmetterla?
Non si addormenterebbe mai con un suo libro…
Mai. Ficarra e Picone hanno scritto uno sketch su questa storia.
È mai andato sulla scena di un crimine.
Una volta. E lì ho capito l’importanza dell’odore, quanto conta percepire con tutte le facoltà, per poi tentare di comprendere la dinamica della tragedia. Per questo i medici legali non usano la pasta di canfora, la danno al magistrato per dispetto.
Quando legge il romanzo di un collega va a caccia di incongruenze?
È una questione di rispetto del lettore, la struttura è fondamentale, e un autore non deve mai barare, deve offrire al lettore i giusti strumenti per raggiungere la soluzione prima della parola fine.
Prima regola per un autore…
Deve sparire dalle righe, altrimenti non si realizza la magia con il lettore.
Alcuni suoi colleghi sostengono che c’è un overdose di thriller…
Sono d’accordo, in Italia l’overdose riguarda anche il giallo. Anzi, da noi ci vorrebbero più thriller e meno gialli.
Avrebbe scritto il seguito della saga di Larsson?
Eccome! Gli siamo tutti un po’ debitori; però avrei accettato solo a patto di avere in testa una storia forte da raccontare.
Molti nuovi autori si affidano al solo Internet…
Questa storia non regge.
Perché?
Il Tribunale delle anime (suo secondo romanzo), tra consulenze, editing, editing esterno, viaggi e ricerche è costato circa 120mila euro e tre anni di lavoro: dove li prendevo i soldi? Questa possibilità esiste solo se hai una struttura alle spalle, una casa editrice solida pronta a sostenerti, altrimenti sono panzane…
Niente autoproduzione.
Non c’è ancora un romanzo di livello uscito dal publishing. Uno. Anche la storia del successo virale di 50 sfumature di grigio sospetto sia una bufala, quel libro è passato da importanti scrivanie.
Però da Internet le è arrivata una spinta inaspettata…
Ken Follett, per Il suggeritore scrisse un bellissimo tweet nel quale segnalava il mio libro.
Le prese un colpo?
Sì, ma con un’incertezza: tutto questo avvenne un Primo aprile, e il tweet me lo segnalava un lettore. Immediatamente chiamai il mio agente, ma Follett era in vacanza e irraggiungibile…
Sciolto il dilemma?
Le vendite del Suggeritore si impennarono…
In totale quanto ha venduto il suo esordio?
Milioni di copie sparse per il mondo.
Il thriller paga.
E se ti chiami Carrisi e arrivi dalla Puglia, un pochino ci devi credere.
Un critica che non sopporta?
Solo una: “Non sono riuscito a finire il libro”.
In autunno uscirà il suo primo film tratto da “La Ragazza nella nebbia”…
E non vedo l’ora.
Anche regista. Lei è sfrontato…
In questo caso no, la direzione di un film non la puoi improvvisare, se non sei preparato, è impossibile.
E quindi, lei?
Sempre grazie a Claudio Mancini: quando lavoravo con lui mi ha dato calci in culo e buttato sul set, mi ha insegnato a cercare gli ambienti per la sceneggiatura, mi ha svelato la “macchina”, i meccanismi. Una delle sue lezioni più importanti è stata: scrivi come se fossi tu a pagare.
Vuol dire?
Creare con la consapevolezza del budget; creare con la coscienza di poter utilizzare un tot di interni e un tot d’esterni. Vuole un esempio? Se uno inserisce un addio tra due amanti, non può ambientarlo all’aeroporto, perché bloccare o ricreare uno scalo costa un’enormità, quindi meglio collocare la scena altrove, in un luogo più “intimo”.
Piccoli, grandi segreti del mestiere…
Uno deve scrivere con in testa la produzione. Quando leggo una sceneggiatura so valutare i costi.
Lei è un metodico.
Io sono fissato.
Sul set la immaginavano così preparato?
Per tre mesi abbiamo pianificato qualunque aspetto e sono riuscito a ottenere tutto quello che avevo richiesto, dagli attori ai collaboratori….
Come esordio ha un cast da veterano: Toni Servillo, Alessio Boni, Greta Scacchi, Jean Reno…
L’importante è non aver paura, poi loro sono professionisti rari. Poi con Alessio abbiamo iniziato insieme, anche lui era nel cast di Un prete tra noi, e da allora siamo amici.
Le arrivano molti manoscritti di scrittori in erba?
Sì, e ogni volta rispondo con una massima di Hemingway: “Lo scrittore è l’ultima persona al quale mandare un libro: se è brutto mi hai fatto perdere tempo, se è bello mi hai fatto incazzare perché lo avrei voluto pensare io”.
Quindi meglio aver paura a inviarglielo…