Luis Ladaria Ferrer, la scelta pericolosa di papa Francesco

4 Luglio 2017

La prudenza è, in questi casi, sempre d’obbligo, ma la scelta papale di Luis Ladaria Ferrer come nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede potrebbe rivelarsi drammaticamente sbagliata. E non solo perché, come scrivono Espresso e Repubblica (lo stesso giornale che a firma di Alberto Melloni esaltava l’ennesima scelta “rivoluzionaria” del Papa), è accusato di aver coperto le attività di un prete pedofilo, ordinando di non rivelare l’esistenza di una condanna canonica contro di lui e quindi consentendogli di continuare a molestare bambini anche senza tonaca.

Ricordiamo che Francesco ha già ha dovuto privarsi, per ragioni analoghe, legate alla pedofilia, del suo ministro dell’Economia cardinal George Pell, dimessosi dall’incarico ed emigrato in Australia per difendersi di fronte a un tribunale. L’altro problema, a proposito di Ladaria, è che egli è noto negli ambienti gesuitici ed ecclesiali per essere un conservatore tenace, come segnalato dal fatto che è stato messo nella Congregazione da Joseph Ratzinger.

Ladaria ha fatto per anni il vice di Müller e nel 2014, mica cento anni fa, rispondendo a un prete francese che chiedeva se un prete potesse assolvere un divorziato risposato consentendogli l’accesso alla comunione, scriveva: “Non si può assolvere validamente un divorziato risposato che non prenda la ferma risoluzione di ‘non peccare più’ e quindi si astenga dagli atti proprio dei coniugi, e facendo in questo senso tutto quello che è in suo potere”, ovvero assumendosi l’impegno di vivere con il nuovo coniuge in piena continenza, da fratello e sorella.

È una frase che non stupisce perché ribadisce il dettato della Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II e perché, negando ogni apertura alla riammissione all’eucaristia dei divorziati risposati, sostiene esattamente quello che il silurato cardinal Müller è andato dicendo e scrivendo dopo l’approvazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia: cioè che non è cambiato niente rispetto al passato, che le aperture di Amoris Laetitia sono un parto della fantasia di qualche visionario e che la Chiesa è attestata, su questi problemi, sulle posizioni intransigenti di sempre.

Il segnale che papa Francesco sembra aver dato al mondo intero con questa nomina è quello di una brusca frenata del già timido processo riformatore. Cosa abbia pesato di più nella mente del Papa a noi non è dato di sapere: può darsi che abbia intravisto la mobilitazione aggressiva di tanti conservatori e che questo l’abbia indotto a cedere e a nominare uno di loro nella delicatissima posizione di numero tre della Chiesa mondiale (il numero due è il Segretario di Stato Pietro Parolin).

Può invece darsi che egli stesso si sia spaventato, come già avvenne per Paolo VI, per le conseguenze dei pur minimi cambiamenti introdotti sino a qui per la tenuta complessiva della Chiesa. Può ancora darsi che, affascinato dagli effetti della comunicazione personale e del suo carisma, egli non tenga in nessun conto (si veda il recente libro di Gian Enrico Rusconi sul papa “teologo narrativo”) gli aspetti teologici, privilegiando quelli pastorali e i gesti clamorosi, e quindi ritenga inoffensivo un conservatore come Ladaria al vertice dell’organismo che stabilisce la rotta dottrinaria e ideologica della grande barca ecclesiale.

Sia come sia, la scelta sembra regressiva, e sembra indurre un deciso affievolimento delle speranze che qualcuno ancora nutriva nel papato argentino.

Francesco si sta rivelando, con le sue gigantesche ambiguità, un meraviglioso investimento per la Chiesa Cattolica: da un lato assicura il rilancio di una immagine appannata grazie alla sua effervescente simpatia, alla semplicità del suo linguaggio e all’efficacia di qualche frase gettata come per caso nel mezzo di una conferenza stampa (la più famosa è stata ovviamente quel “chi sono io per giudicare un omosessuale?” che ha fatto il giro del mondo e che si è poi rivelata, per ammissione dello stesso Francesco, una citazione del catechismo), dall’altro, non fa un solo graffio all’apparato istituzionale, anzi lo preserva e lo protegge da ogni attacco esterno, in assoluta continuità con i predecessori, che però avevano il torto di essere meno amichevoli e di apparire più severi, più burberi.

E di mostrarsi meno dimessi, più solenni nell’incedere, più seriosi e distanti dagli umori popolari di questo straordinario pastore argentino. Che riesce a nascondere magnificamente il fatto di essere il capo di un’organizzazione che continua a non cambiare.

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