Il momento della verità

Monte Paschi, Jp Morgan è una tassa da 1,7 miliardi

Il cda si è rifiutato di valutare il piano Passera e ha consegnato la banca agli americani voluti dal premier che puntano alle commissioni (senza garanzia di risultato)

3 Ottobre 2016

Arriva. A questo punto della triste storia del Monte dei Paschi ecco la domanda delle cento pistole: perché il consiglio di amministrazione della banca senese si limita al forno di Jp Morgan e non lo mette in concorrenza con l’altro forno proposto da Corrado Passera? La questione è curiosa, Jp Morgan passa per la salvatrice della patria ormai dal 6 luglio, e cioè da quando il suo capo Jamie Dimon disse a Matteo Renzi che mai avrebbe lasciato fallire Mps per l’inezia di 5 miliardi. Se abbandonato, Mps avrebbe trascinato nel gorgo il sistema bancario e dunque l’Italia. Giammai. Il premier gli prestò fede, ma dopo tre mesi la grande banca americana ha ancora firmato nessun accordo vincolante. E non ha firmato nemmeno il partner italiano dell’operazione, e cioè Mediobanca.

Tanto incaponirsi su Jp Morgan, rappresentata in Italia dall’ex ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, induce a chiedersi se il consiglio di Mps possa o non possa ascoltare l’ex ministro dello Sviluppo economico che, nella sua vita precedente, vanta i successi del Banco Posta e di Intesa Sanpaolo?

Di solito i consigli esplorano le alternative. Se non lo fanno, lo devono spiegare. In questo caso, sorge il dubbio che a Dimon sia stata concessa l’esclusiva. Se fosse, il consiglio dovrebbe chiarire quando, come e a quali condizioni. Oppure l’esclusiva è stata concessa de facto dall’azionista di riferimento di Mps, e cioè dal Tesoro? O forse ancora da palazzo Chigi?

Al mercato Mps ha presentato un piano targato Jp Morgan che non è stato realizzato. E ora cambia il vertice, su richiesta della stessa Jp Morgan (non di Mediobanca), e cambia pure il “suo” piano, ma tenendone ben fermi i costi sensazionali.

Il 29 luglio il consiglio aveva annunciato la svalutazione dei crediti deteriorati e la cessione di tutti quelli in sofferenza. La conseguente perdita di 5 miliardi sarebbe stata ripiantata con un equivalente aumento di capitale da offrire in opzione ai soci. Il soggetto deputato all’acquisto delle sofferenze, finora misterioso, dovrebbe pagare subito Mps. Poiché si finanzia emettendo obbligazioni, quel soggetto avrà bisogno di un prestito ponte che verrà rimborsato con l’incasso delle obbligazioni. Ma lo schema non decolla. La scusa ufficiale è il referendum. Palazzo Chigi lo ha presentato come un’ordalia tra la luce e le tenebre. Gli investitori resteranno alla finestra fino al 4 dicembre. L’argomento non depone a favore della saggezza del governo, che non dovrebbe mai presentate il proprio Paese sull’orlo di un precipizio. Se vincesse il No, dal 5 dicembre sarebbe Renzi per primo a gettare acqua sul fuoco e a invocare il ritorno al business as usual. La verità è che, alla faccia della grandeur di Jp Morgan, 5 miliardi non sono noccioline. Il consorzio bancario internazionale di garanzia non si forma. E il ritardo rischia di infilare Mps nell’ingorgo delle ricapitalizzazioni dei colossi Deutsche Bank, Unicredit e Caixa.

Parte così la ridda teleguidata delle voci in attesa che il 24 ottobre il nuovo amministratore delegato, Marco Morelli, scopra le carte. Morelli era stato sponsorizzato dal “Giglio magico” per Unicredit, ma il consiglio della multinazionale bancaria italiana gli preferì il francese Mustier. Ora, a Siena, sembra giocare in squadra con Jp Morgan, per la quale un tempo aveva lavorato. Secondo le voci prevalenti, la ricapitalizzazione resterebbe pari a 5 miliardi, ma verrebbe effettuata in parte con un aumento di capitale e in parte con la conversione delle obbligazioni subordinate in azioni.

Nella nuova versione dell’aumento sparirebbe il diritto di opzione. Perché? Per guadagnare tempo, si dice. E poi, visto che Mps vale meno di 600 milioni, che diritto ci sarà mai? A certe condizioni, i diritti possono valere qualcosa, e in ogni caso ci si chiede se la totale rinuncia ai diritti non implichi un danno erariale per il Tesoro. E non ci si venga a dire che il Tesoro ha solo il 4 per cento perché con questa partecipazione ha il potere di licenziare l’ex ad Fabrizio Viola e assumere Morelli.

Quanto alla conversione delle obbligazioni subordinate, in prima battuta sarebbe volontaria, poi si vedrà. Certo è che i fondi avvoltoio le hanno appena comprate a 70 e guadagnerebbero bene anche con la conversione a 90, mentre i risparmiatori cassettisti, che le avevano prese a 100, materializzerebbero una perdita che potrebbe essere recuperata solo dal rimbalzo delle quotazioni azionarie.

Due parole sui costi by Jp Morgan. Le commissioni per l’aumento di capitale da 5 miliardi peserebbero per 230 milioni. La progettazione e la costruzione del veicolo che compra le sofferenze ne prenderebbe altri 45. Il prestito ponte di 5 miliardi, studiato per 18 mesi ma che, essendo ottimisti, verrà usato per soli 6 mesi, assorbirebbe altri 150 milioni tra interessi e commissione upfront. Le banche finanziatrici avranno come garanzia l’intero ammontare delle sofferenze, e cioè 9,2 miliardi, perciò al momento svalutabili fino al 18% del valore facciale. Attenzione dunque alle clausole, perché alle banche finanziatrici converrebbe l’insolvenza del veicolo. Poi vengono gli interessi sulle obbligazioni senior (60 milioni l’anno), quelli sulle mezzanine riservate al fondo Atlante (100 milioni l’anno), le commissioni per il recupero dei crediti (altri 100 milioni l’anno). Se consideriamo che il lungo periodo di recupero potrà essere equivalente a 5 annualità, ecco che il giro di soldi tra commissioni e interessi si aggira sugli 1,7 miliardi. Cifre che oggi possono essere solo suggestive, ovvio.

Ma insomma, se quest’operazione nel primo anno costa più di quanto vale oggi in Borsa la terza banca italiana, qualcosa da capire ancora resta. O no?

Veniamo così alle voci sulla proposta alternativa. Passera coprirebbe il buco di 5 miliardi con un aumento di capitale di 2,5 miliardi riservato a 4-5 fondi di chiara fama, dai quali avrebbe ottenuto via libera. Per questo non ci sarebbe più bisogno dell’avallo di Ubs.

A questo intervento dei nuovi soci di riferimento si aggiungerebbe un altro miliardo di aumento riservato in opzione agli attuali azionisti. Il resto verrebbe dalla rinuncia ai dividendi per due o tre anni. Passera, si sostiene, non toccherebbe le obbligazioni subordinate. I risparmiatori continuerebbero a percepire gli interessi e sarebbero pienamente rimborsati alla scadenza. Ma soprattutto Passera non cederebbe le sofferenze a prezzo vile a un veicolo messo su da Jp Morgan ma a un veicolo formato con personale Mps, le cui azioni sarebbero date ai soci Mps. La banca deconsoliderebbe le sofferenze, ma l’upside resterebbe in famiglia.

Ora, queste voci provenienti dall’uno e dall’altro forno sono vere o false? Di certo influenzano il mercato, e dunque, mentre mi chiedo che cosa vigili la Vigilanza Unica, mi aspetterei che la Consob facesse chiarezza. Ma soprattutto che il governo si assumesse le sue responsabilità. Magari in Parlamento. Chiarendo che, se tutto andasse male, si potrebbe sempre nazionalizzare in via temporanea utilizzando la clausola esimente dal bail in. Ma di questo parleremo un’altra volta.

di Massimo Mucchetti, giornalista, senatore del Pd, presidente commissione Industria

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