Nella Gerusalemme d’Africa i musulmani proteggono gli ebrei

Antica come gli ulivi e le palme che punteggiano l’isola di Djerba: la Ghriba (in arabo, la straniera) è un’antichissima sinagoga tunisina, conosciuta come la Gerusalemme d’Africa. Secondo la leggenda, proprio dai resti del tempio di Salomone arrivò una delle pietre con cui fu costruita. Tutti gli anni è meta di un pellegrinaggio (hillula, festa in aramaico) degli ebrei che arrivano sull’isola tunisina 33 giorni dopo la Pasqua per celebrare Lag Ba’omer. Una tradizione secolare nel cuore del Maghreb, una sfida aperta al terrorismo che vuole isolare la Tunisia. Nel villaggio di Hara Seghira, il miracolo: musulmani che proteggono ebrei. Una cornice di sicurezza formidabile. Due ali di poliziotti armati e con giubbotti antiproiettile, mezzi corazzati, un blindato pieno di forze speciali incappucciate, elicotteri. I tiratori scelti sono sui tetti bianchi del caravanserraglio di fronte alla sinagoga che un tempo ospitava i pellegrini (molti ormai preferiscono alloggiare nei lussuosi hotel sulla costa).
La Ghriba è femmina, una bellissima donna venuta da chissà dove, che morì bruciata nella sua capanna, ma il cui corpo fu trovato integro. Un miracolo che da millenni alimenta la leggenda. Proprio nel luogo dell’incendio oggi sorge la parte più sacra della sinagoga dove si entra a piedi scalzi e a capo coperto e dove vengono accese le candele e deposte le uova su cui viene scritto il nome di una giovane donna che aspira al matrimonio, o che desidera un figlio. C’è chi chiede una grazia per una persona cara. Le donne sono tantissime, solo loro possono spingere la Menara una sorta di carretto dove è montato il grande candelabro a sette braccia coperto da foulard, veli e stoffe su cui sono scritti i voti. Marcò, ebreo franco-tunisino che dall’alto della Menara incita le fedeli che rispondono con lo youyou, il tipico verso berbero fatto agitando la lingua in segno di felicità. “Noi li amiamo e loro ci amano, habibi!” urla Marcò.
Olfa è di Djerba, ma vive a Tunisi dove insegna corporate finance all’università ed è la prima volta che partecipa alla Ghriba: “È magico”. Monette invece viene da Parigi: “Dopo l’attentato (nel 2012 qui morirono oltre 20 persone) c’erano solo 10 pellegrini”. Sono tutti nati in Tunisia (la presenza ebraica risale a duemila anni fa), andati via dopo la creazione dello Stato di Israele. Quelli rimasti sono 1.500 e vivono a Tunisi, Sfax, Sousse e Nabeul. Il giuidaismo di Djerba è considerato il più fedele alla tradizione.
Roger Bismuth ha 90 anni è il presidente della comunità ebraica e dice sorridendo che è in Tunisia da prima dei berberi. “Non sono mai voluto andare via” racconta, “è il mio paese. Intervistate gli altri per sapere perché sono partiti. Il mondo è pericoloso, non solo la Tunisia, Parigi sta peggio di noi”. Nella conferenza sul dialogo interreligioso organizzata proprio nei giorni del pellegrinaggio da Habib Mellakh, rettore di Manouba la facoltà di lettere di Tunisi e autore di un libro in cui denuncia le violenze subite dagli integralisti, racconta con entusiasmo l’idea di fondare un museo della civiltà ebraica a Tunisi. “Per ora è un sogno nato in ambito accademico, ma che ha già l’appoggio delle autorità tunisine”. Anche Sydney Assor, capo della comunità ebraica marocchina a Londra, è molto critico con Netanyahu: “È un capo dello Stato, non degli ebrei. Non è il papa”. Poi aggiunge: “In Tunisia la coesistenza è una realtà. Quello che inquieta è la politica inglese sui viaggi”. Tra la folla del caravanserraglio compare anche Abdel Al Fattah Mourou, fondatore di Ennahda, partito politico di ispirazione islamista che significa Rinascita e vicepresidente del parlamento.
Accolto come uno di loro da tutti gli ebrei mentre cammina tra un banchetto che vende brick (la tipica sfoglia tunisina con l’uovo) e le bancarelle di altra mercanzia: “Sono cittadino tunisino, mi hanno invitato perché non ci sono differenze. Ennahda è un partito civile, non religioso. Sono stato picchiato dai salafiti ma mantengo la mia linea. Sono qui per testimoniare la mia vicinanza”. Ennahda, è la seconda speranza della Tunisia che non vuole arrendersi all’Isis e alla sua ideologia. Il decimo congresso del partito islamista ha sancito la netta separazione tra fede e politica. Ma la svolta di Rached Ghannouchi non ha convinto tutti. Gli osservatori più critici non credono alla possibilità che un partito islamista possa secolarizzarsi. E ricordano una delle regole dell’islam più radicale, l’occultamento, la legge della Taqiya: “In difesa degli interessi la menzogna diventa lecita”. Critiche, dubbi e speranze. La Tunisia, dopo gli attentati al Bardo, l’assalto alla spiaggia di Sousse e le infiltrazioni dei miliziani dell’Is, vuole mostrare il suo volto pacifico e sicuro. L’economia è in crisi, con un tasso di crescita inchiodato all’1%, dopo gli attentati il turismo è crollato del 63%, e il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50%. Tra la folla di ebrei e musulmani tre ministri. Selma Ellouni Rekik è la responsabile del Turismo. “Siamo un Paese sicuro, la porta dell’Africa verso l’Europa. Siamo terra di accoglienza e di tolleranza, abbiamo una grande tradizione di convivenza tra ottomani, fenici, arabi ed ebrei. Ce la faremo se l’Europa ci sarà al fianco”.