Stipendi fermi da 30 anni mentre i profitti volano. Ma a questo governo non basta ancora
In Italia c’è un’emergenza che brucia sotto la cenere da troppo tempo. Non è nuova, ma oggi è più acuta che mai. È l’emergenza salariale. Un dramma che riguarda 24 milioni di lavoratrici e lavoratori, di cui 17 milioni dipendenti, e che la politica continua a ignorare, come se non fosse il cuore pulsante della crisi sociale che stiamo vivendo.
I salari italiani sono fermi da trent’anni. Non è un modo di dire: è un dato. Dal 1990 a oggi, mentre in altri Paesi europei le retribuzioni crescevano, in Italia si sono contratte. E se la crisi del 2008 ha dato il primo colpo, la pandemia, la guerra in Ucraina e la corsa al riarmo hanno inferto il colpo di grazia. L’inflazione è tornata a correre, ma i salari sono rimasti al palo.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, tra i Paesi del G20 a economia avanzata, l’Italia è quella che ha perso di più in termini di potere d’acquisto: -8,7% in 17 anni. Peggio di noi, nessuno. E mentre i prezzi dell’energia sono saliti del 43% e quelli del pane del 62%, le retribuzioni contrattuali sono cresciute solo del 10,1% tra il 2019 e il 2025, a fronte di un’inflazione del 21,6% (dati Istat).
Il risultato? Più di un lavoratore su dieci è a rischio povertà. A Milano e nell’hinterland, un operaio non riesce più a permettersi un affitto, una spesa dignitosa, una vita normale. Cinque milioni di persone non riescono a riscaldare casa, a fare una vacanza, a mangiare carne ogni due giorni, a fronteggiare un imprevisto, ad avere una connessione internet. Non è solo povertà: è esclusione.
Eppure, mentre i salari crollano, i profitti delle imprese volano. Lo ha detto anche il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta: “Con i profitti delle imprese elevati, un qualche recupero del potere d’acquisto dei salari è fisiologico”. Ma la politica del governo e le imprese sembrano sorde. Pensano davvero che si possano alzare i salari solo per via fiscale?
La contrattazione collettiva, da sola, non basta più. Quasi la metà dei contratti è scaduta, e il tempo medio di attesa per un rinnovo è di quasi due anni. Intanto, proliferano i “contratti pirata” e l’uso distorto dei contratti collettivi nazionali. E manca ancora un salario minimo legale, che sarebbe uno strumento essenziale per contrastare il lavoro povero.
Ma a questo governo non basta ancora. Non basta l’immobilismo salariale. Non basta una manovra di austerità pensata per finanziare una corsa al riarmo pagata da lavoratori e pensionati. Non basta l’aumento delle spese militari di un miliardo di euro e l’adesione piena all’economia di guerra. Non basta una legge che si veste di “stabilità” per mascherare i tagli ai ministeri, agli enti locali, ai servizi.
Non bastano i salari prosciugati e le risorse pubbliche consegnate alle rendite di guerra e fossili, mentre 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta. La loro difesa di rendite e privilegi è ormai senza maschere e senza vergogna, mentre il disastro sociale è sotto gli occhi di tutti.
Nessuna tassa sugli extraprofitti. Nessuna progressività fiscale. Nessun tentativo di correggere le diseguaglianze. Non basta nemmeno tutto questo, perché la loro scelta di classe, come sempre, deve mostrarsi anche aggressiva: prima hanno tentato di sollevare le imprese del fast fashion dalle responsabilità sul caporalato. Poi sono tornati alla carica con uno scudo per chi ha elargito salari inferiori ai minimi costituzionali. Per fortuna, li abbiamo fermati di nuovo.
Ma non possiamo limitarci a restare in difesa.
Per questo, come Alleanza Verdi e Sinistra, abbiamo presentato la proposta di legge “Sblocca stipendi”. Una proposta semplice e giusta: indicizzare i salari al costo della vita. Perché non è accettabile che chi lavora resti povero. Perché la crescita salariale non è un lusso, ma una leva per rilanciare la produttività, l’innovazione, l’economia.
La proposta prevede che, almeno per il personale statale, l’adeguamento sia a carico della finanza pubblica, finanziato da un aumento dell’aliquota sui capital gain. Perché è ora che chi ha di più contribuisca a restituire dignità a chi lavora.
Il nostro fisco regge sul lavoro e sui consumi. E mentre il 5% più ricco gode di vantaggi e privilegi, lavoratori e pensionati pagano il conto. Come ha scritto l’ex ministro Visco, oggi abbiamo una progressività forte nelle fasce basse, lievissima in quelle medie e una vera regressività per i ricchi.
Un’imposta simbolica sull’1% più ricco garantirebbe 26 miliardi l’anno per salvare scuole, sanità e pensioni. La retorica anti-patrimoniale della destra nasconde il progetto di spostare ancora più oneri sui ceti medi e popolari. Dobbiamo farlo capire a 42 milioni di contribuenti. Deve essere chiaro prima di tutto a noi: come si può pensare di aumentare la spesa pubblica senza prendere i soldi dove ce ne sono di più?
Semplicemente, non si può. Ma per la destra questo non è un problema: non vuole farlo. Perché ha in testa un’ideologia ultraliberista e antisolidale, in cui ognuno è lasciato solo a lottare per la propria sopravvivenza. Sognano l’estinzione dello Stato. Per loro il declino della sanità pubblica è desiderabile, così come quello della scuola.
Per questo noi, del campo giusto, dell’alleanza progressista, dobbiamo prendere i soldi dove ce ne sono di più: banche, colossi delle armi, multinazionali dell’energia e dell’era fossile. Basterebbe chiedere a loro il giusto per abbattere le liste d’attesa.
Non possiamo più aspettare. Sbloccare gli stipendi significa sbloccare il Paese.