Traffico di influenze, la Consulta “salva” la legge Nordio. Ma avverte: “Fatti gravi impuniti, serve normativa sulle lobby”
Lo svuotamento del traffico di influenze illecite ha “limitato significativamente la tutela penale del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione”. Ma la scelta del governo “non viola gli obblighi internazionali” e quindi non può essere ritenuta contraria alla Costituzione. Dopo aver validato l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la Corte costituzionale salva ancora la legge Nordio del 2024 dichiarando legittima la riforma del traffico di influenze, il reato introdotto dalla legge Severino per colpire la “zona grigia” tra lobbismo e corruzione, sanzionando i cosiddetti “faccendieri”. Allo stesso tempo, però, la Consulta riconosce che, a causa della riscrittura della norma, “condotte di indubbia gravità” contro gli interessi pubblici “restano del tutto sprovviste di sanzione“. E lancia un appello al Parlamento per approvare finalmente una legge sulle lobby, che – scrivono i giudici – “appare necessaria” per “garantire trasparenza alle prassi di interlocuzione con le istituzioni, onde assicurare ai consociati la possibilità di un più accurato controllo sull’operato della pubblica amministrazione e dei propri rappresentanti eletti”.
La questione di costituzionalità era stata sollevata dal gup di Roma, su richiesta della Procura, nell’ambito del processo sulla maxi-fornitura di mascherine cinesi all’Italia ai tempi dell’emergenza Covid. I pm hanno chiesto il rinvio a giudizio di alcuni imprenditori accusati di aver versato quasi 12 milioni di euro a un mediatore (l’ex giornalista Mario Benotti, nel frattempo deceduto) per attivarsi con Domenico Arcuri, ai tempi commissario straordinario del governo, in modo da assicurare loro l’appalto, dal valore di un miliardo e 250 milioni. Con il “nuovo” traffico d’influenze riscritto dalla legge Nordio, però, una mediazione come questa è punibile solo se finalizzata a commettere un reato: e il reato ipoteticamente commesso da Arcuri era l’abuso d’ufficio, che la stessa legge ha abrogato, portando all’assoluzione dell’ex commissario. Per questo i magistrati si erano rivolti alla Consulta, ipotizzando la violazione della Convenzione sulla corruzione di Strasburgo, ratificata dall’Italia come Stato membro del Consiglio d’Europa: l’articolo 12 del trattato, infatti, obbliga a incriminare le “influenze improprie” esercitate dai mediatori, senza specificare che debbano essere finalizzate a commettere un reato. Secondo i pm, il nuovo testo della norma italiana ha causato un'”asfissia applicativa” del traffico d’influenze, “tale da portare in concreto”, grazie alla contemporanea abolizione dell’abuso d’ufficio, “all’ineffettività di ogni profilo sanzionatorio”.
Con la sentenza depositata il 16 dicembre, si legge in un comunicato, la Corte “ha però ritenuto che il concetto di “influenza impropria” utilizzato dalla Convenzione abbia contorni vaghi, che necessariamente debbono essere precisati dal legislatore nazionale“. Pertanto, “la scelta del legislatore italiano di fornire una interpretazione restrittiva di “mediazione illecita” si colloca all’interno dello spazio di discrezionalità che la stessa Convenzione di Strasburgo lascia aperto al legislatore nazionale”. E questo anche a causa della “persistente mancanza”, nel nostro Paese, “di una disciplina del lobbying, che consenta di tracciare una chiara linea distintiva tra illegittime e legittime forme di intermediazione con i pubblici ufficiali”. I giudici costituzionali quindi lanciano l’appello a introdurre una legge organica sulla materia, “da tempo e da più parti auspicata“, che possa in futuro “consentire al legislatore di rimeditare le attuali scelte in materia di disciplina penale del traffico di influenze illecite”: cioè riespandere il reato, “sì da assicurare una più incisiva tutela degli interessi collettivi all’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione contro condotte di indubbia gravità, che restano oggi del tutto sprovviste di sanzione”. Nel frattempo, però, gli imprenditori imputati a Roma per la presunta maxi-tangente sulle mascherine dovranno essere archiviati con la stessa formula che ha mandato in fumo tanti processi per abuso d’ufficio: “Il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.