Economia

Pensioni, da gennaio per le minime aumenti di 3,1 euro al mese. E c’è il paradosso del “premio” a chi ha meno contributi

Un decreto del ministero dell'Economia pubblicato in Gazzetta ufficiale venerdì scorso quantifica l'indicizzazione, a cui si aggiungerà il mini ritocco dell'1,3% previsto dalla manovra dello scorso anno

L’indicizzazione delle pensioni per il 2026 sarà appena dell’1,4%. Con aumenti impercettibili per chi già prende un assegno molto basso. Non solo: il mancato coordinamento imperfetto tra perequazione, Irpef e addizionali produce, denuncia la Cgil, un paradosso per cui gli assegni previdenziali di poco superiori alla soglia della no tax area vedono gran parte dell’aumento eroso dal prelievo fiscale. Finendo per ricevere incrementi netti addirittura inferiori a quelli di chi percepisce il minimo o ha un trattamento assistenziale. Sono gli effetti di un sistema che non riesce a garantire la salvaguardia del potere di acquisto perso negli anni scorsi.

L’indicizzazione all’inflazione

Venerdì scorso è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto del ministero dell’Economia che mette nero su bianco la perequazione degli assegni per il 2026: sarà dell’1,4%, percentuale provvisoria (potrà essere ritoccata nel 2027) ma sufficiente per capire l’ordine di grandezza degli aumenti. Per centinaia di migliaia di pensionati il ritocco sarà praticamente invisibile. Le pensioni minime, oggi a 616,67 euro, saliranno a 619,79 euro. Tre euro e dodici centesimi in più al mese. A cui si aggiunge il mini ritocco dell’1,3% previsto dalla manovra dello scorso anno (quella per il 2026 non prevede nuovi interventi). L’anno scorso l’aumento era stato persino inferiore: 1,8 euro. In due anni, con gli adeguamenti all’inflazione le minime guadagnano meno di cinque euro complessivi.

“La perequazione è assolutamente insufficiente a recuperare la perdita di potere d’acquisto prodotta dall’impennata inflattiva del biennio 2022-2023, e oggi gli aumenti previsti risultano quasi del tutto erosi dall’Irpef e dalle addizionali, con un impatto reale minimo e in molti casi simbolico”, commentano gli uffici Previdenza della Cgil nazionale e dello Spi Cgil. “Una pensione 2025 di 632 euro netti passerà nel 2026 a 641 euro netti, solo 9 euro in più al mese; una pensione di 800 euro netti crescerà anch’essa di soli 9 euro mensili, da 841 a 850 euro”.

Il resto del meccanismo non cambia: è prevista la piena rivalutazione solo fino a 2.447,39 euro lordi. Oltre, scattano le penalizzazioni introdotte negli anni scorsi: 1,26% tra 2.447 e 3.059 euro, 1,05% per gli assegni più alti. Tutto al lordo, perché al netto pesano Irpef e addizionali regionali e comunali. Così, un assegno da 1.000 euro salirà a 1.014, uno da 1.500 a 1.521, uno da 2.000 a 2.028, uno da 2.500 a 2.534,88. Oltre le quattro volte il minimo la rivalutazione è ridotta, per cui 2.800 euro diventano 2.838,7, 3.000 arrivano a 3.041,18 e una pensione da 3.500 euro toccherà circa 3.546 euro.

Il paradosso che penalizza chi sta sopra la no tax area

La Cgil aggiunge però un altro tassello: “L’assenza di un coordinamento efficace tra perequazione, fiscalità e maggiorazioni sociali produce effetti distorsivi sul piano dell’equità complessiva”. Infatti mentre le pensioni assistenziali e le pensioni previdenziali integrate al minimo con maggiorazioni sociali seguono la rivalutazione e beneficiano degli incrementi introdotti dalle leggi di bilancio, “mantenendo integralmente l’aumento in termini netti, grazie alla totale esenzione dall’Irpef e dalle addizionali”, le pensioni previdenziali di poco superiori alla soglia della no tax area ferma a 8.500 euro annui “subiscono un effetto opposto: gli incrementi derivanti dalla perequazione vengono in larga parte assorbiti dall’Irpef e dalle addizionali, producendo aumenti netti molto più contenuti”.

La conseguenza è “una progressiva erosione del differenziale tra pensioni maturate con anni di lavoro regolare e prestazioni assistenziali: a parità di condizione di bisogno, il risultato economico finale può sorprendentemente essere più favorevole per chi percepisce trattamenti assistiti o pensioni minime maggiorate rispetto a chi ha costruito una pensione previdenziale più alta, ma soggetta a imposizione fiscale”. Un sistema, dunque, che “premia paradossalmente chi ha minori contributi e penalizza chi ha sostenuto più a
lungo il finanziamento della previdenza pubblica, compromettendo la coerenza del principio contributivo-solidaristico e alimentando un senso crescente di ingiustizia sociale”, compromettendo “i principi di equità e dignità su cui deve fondarsi la previdenza pubblica”.

Per questo la segretaria confederale della Cgil Lara Ghiglione e il segretario nazionale Spi Cgil Lorenzo Mazzoli chiedono interventi strutturali: “L’allargamento e il rafforzamento della quattordicesima mensilità, strumento fondamentale di sostegno al reddito per milioni di pensionate e pensionati, insieme all’allargamento della no tax area per i pensionati, perché gli aumenti reali vengono oggi assorbiti dal prelievo fiscale e i redditi più bassi stanno sprofondando nella povertà. Il Paese non può permettersi di lasciare indietro chi ha lavorato una vita né di trasformare la condizione delle persone anziane in terreno di propaganda politica”.

Il governo Meloni, ricordano, “ha costruito una narrazione fatta di slogan e promesse sul superamento della legge Monti Fornero, sulla flessibilità in uscita e su pensioni più dignitose. Ma la realtà che vivono ogni giorno lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati è profondamente diversa e dietro agli slogan non c’è una riforma, ma un arretramento dei diritti e della dignità delle persone. Non solo l’azzeramento di qualsiasi forma di flessibilità in uscita, ma dal 2027 si andrà in pensione sempre più tardi e con assegni sempre più poveri”.