Pensare che questa riforma della giustizia sia la soluzione al problema del suo funzionamento è cervellotico
di Leonardo Botta
Cos’hanno in comune Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, Rosario Livatino e Antonino Saetta? Com’è tristemente noto, furono magistrati barbaramente trucidati da Cosa Nostra. Ma non è l’unica caratteristica che accomuna questi eroi della lotta alla criminalità organizzata: tutti loro sono stati, nella loro carriera professionale, sia giudici che pubblici ministeri, sapendo ricercare giustizia e verità da qualunque posizione essi assumessero, fosse essa inquirente o giudicante. Una condizione che, se passasse questa riforma della magistratura voluta dal governo Meloni e dalla maggioranza parlamentare (e avallata anche da qualche partito di opposizione), verrebbe definitivamente superata (già al momento, nella gran parte dei casi, lo è già).
E sapete qual è, in Italia, la percentuale di condanne per reati dei “colletti bianchi” (corruzione, frode, peculato, truffa, appropriazione indebita, traffico d’influenze ecc.) rispetto al totale? Meno dell’1%, mentre la media in Europa supera il 6% (in Germania siamo addirittura al 13). Eppure l’Italia è una nazione in cui la corruzione permea fortemente la società (lo dimostrano indici come il Golden-Picci, che misura il costo delle opere pubbliche rispetto ad altri paesi).
Riporto queste due circostanze perché rifletto su alcune questioni in vista del referendum a cui saremo chiamati a esprimerci in primavera su questa riforma. La magistratura ha commesso molti errori, molti ne commette e continuerà a commetterne (immaginare che tra novemila magistrati in servizio non esistano persone che facciano male il proprio lavoro o, peggio ancora, corrotti e mele marce, è pia illusione). Ma pensare che la soluzione del problema del funzionamento della giustizia nel nostro paese sia questa riforma (che scomoda addirittura la Costituzione), mentre si introducono reati come quello di rave party abusivo o di manifestazione non autorizzata e nello stesso tempo si depenalizza l’abuso d’ufficio e si limitano le intercettazioni telefoniche, a me pare cervellotico.
La magistratura ha molte colpe, dicevo. Per esempio, un patologico uso delle correnti che ha minato il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, come hanno evidenziato casi quali la vicenda Palamara. Ma la separazione delle carriere in Costituzione, c’è poco da fare, è l’anticamera dell’assoggettamento delle procure al potere politico (e al diavolo l’art. 104), come avviene in tutti gli Stati in cui vige quel sistema. E nel paese che ha visto condannare esponenti di primissimo piano della politica nazionale (Berlusconi, Previti, Cuffaro, Dell’Utri, D’Alì, Cosentino, Matacena, Formigoni, Galan, Cota, Scopelliti, Del Turco; l’elenco è lungo) e grandi imprenditori e finanzieri collusi con la stessa politica, su quali tipologie di reato credete che il governo di turno sarebbe tentato di chiedere alla magistratura di concentrarsi?
E non venite a dirmi che deve finire questa storia dei giudici che sono “tazza e cucchiaio” con i pubblici ministeri: basta dare uno sguardo alle statistiche, secondo le quali quasi la metà dei processi finisce in assoluzioni (addirittura in qualche caso gli organi giudicanti condannano laddove i Pm avevano chiesto l’assoluzione degli imputati), segno evidente che spesso e volentieri le tesi delle procure vengono (meno male!) sconfessate dalle sentenze.
Un’ultima considerazione: io non so in quanti paesi civili e democratici una riforma costituzionale in materia di giustizia sarebbe celebrata nel nome di Silvio Berlusconi, un frodatore fiscale iscritto alla logga massonica P2 di Licio Gelli (sono fatti, non mie opinioni). Temo solo in Italia quella che Elio e le storie tese chiamavano, a ragion veduta, la “terra dei cachi”. La terra che fu di giuristi padri costituenti come Dossetti, Saragat, Terracini, De Nicola, Bosco Lucarelli, Conti, Tupini, Targetti, Pecorari, Grandi. Che ora temo si stiano rivoltando nella tomba.