
Un ecosistema che ha usato le liturgie della provincia democristiana e la leva degli apparati amministrativi per trasformare la Regione in una macchina di fedeltà
Partiamo dalle origini, senza folklore. Il “sistema Cuffaro” non nasce con Cuffaro: lui è il prodotto riuscito di tre matrici che in Sicilia si incrociano tra anni 70 e anni 90 e che lui riesce a cucire in un format perfetto di potere.
Totò Cuffaro viene dalla Democrazia Cristiana tradizionale, corrente andreottiana e mondo cattolico organizzato: parrocchie, associazioni, professioni sanitarie, cooperative, campagne agrigentine. Da studente entra nella DC, scala il movimento giovanile, impara: centralità della preferenza personale; gestione dei bisogni minuti (posto, visita, ricovero, appalto, licenza) come strumento di fidelizzazione; uso del linguaggio morale e religioso come schermo identitario e brand politico. Questa scuola gli consegna il vocabolario: “buon cristiano”, “moderato”, “uomo del popolo”, “garante di prossimità”. Ma soprattutto gli dà l’infrastruttura di relazione capillare.
Il “modello Cuffaro” oggi non è nostalgia, non è solo la parabola di un ex presidente della Regione condannato in via definitiva a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio nel processo “talpe alla DDA”, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, poi dichiarata estinta a seguito della riabilitazione: è l’esito più compiuto di un ecosistema di potere che ha usato il lessico del cattolicesimo politico, le liturgie della provincia democristiana e la leva degli apparati amministrativi per trasformare la Regione in una macchina di fedeltà, intermediazione e protezioni.
Quando parliamo del brodo di coltura, dobbiamo essere intellettualmente onesti: non è “la Chiesa” in quanto tale. È un certo cattolicesimo di potere, intrecciato alla Democrazia Cristiana storica più opaca, che ha usato le parrocchie e associazioni come corridoi di consenso, ha costruito carriere sulla raccomandazione, ha normalizzato la confusione tra cura pastorale e gestione dei voti. È l’esatto contrario della linea che in quegli stessi anni, dentro la stessa Chiesa, si è incarnata nel grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, negli ultimi passi di don Pino Puglisi a Brancaccio, nella mitezza radicale di Rosario Livatino: figure che hanno reso evangelicamente intollerabile ogni contiguità con le mafie e hanno pagato, direttamente o simbolicamente, il prezzo della rottura con quel sistema.
Il punto è che il modello Cuffaro ha selezionato il pezzo di cattolicesimo che legittima il potere come famiglia allargata, non quello che lo giudica. Da lì il format: identità rassicurante (buon cristiano, moderato, uomo del popolo), estetica della prossimità (baci, abbracci, battesimi, corsie degli ospedali, I have a drink) e promessa di soluzione personalizzata al bisogno individuale.
Il passaggio decisivo avviene quando questa grammatica affettiva si salda con la gestione chirurgica della sanità, delle partecipate, delle burocrazie chiave: chi dirige un’ASP, chi ottiene l’accreditamento, chi siede nelle commissioni, chi controlla le carte e chi chiude gli occhi. A quel punto il potere vero non è più dove formalmente lo cerchiamo – nel partito, nel simbolo, nel leader di turno – ma “altrove”: in una rete di uffici, determine, protocolli, note interne, catene di comando amministrative che rendono reversibile il politico, perfino lo stesso Cuffaro, e stabile il sistema.
Il “potere altrove” è questo: la capacità di condizionare decisioni pubbliche senza esporsi, usando l’amministrazione come interfaccia rispettabile di un metodo che resta invariato anche quando cambia il nome del presidente, la sigla del partito, la narrazione pubblica del pentimento e della rinascita. È esattamente ciò che si richiama in una mia risalente pubblicazione, “La Corruzione come metodo”: non l’episodio eclatante che finisce sui giornali, ma il codice implicito che regola selezione, promozione, protezione. Dentro questo codice il modello Cuffaro non è un incidente ma un vertice: un’egemonia che continua a vivere nei comportamenti anche dopo la condanna dell’uomo che l’ha incarnata in modo più vistoso. Se prendiamo sul serio questa diagnosi, il nodo diventa il ricambio generazionale.
Il ceto dirigente e funzionarial-burocratico che si è formato e consolidato durante il cuffarismo pieno, tra fine anni 90 e 2008, oggi ha tra i 45 e i 70 anni. È ai vertici delle strutture siciliane: direzioni generali, uffici appalti, servizi finanziari, autorizzazioni e accreditamenti sanitari, nuclei di valutazione, staff tecnici che attraversano più giunte cambiando solo intestazione. Uscirà fisiologicamente tra il 2035 e il 2045. Nel frattempo ha già allevato una seconda generazione che ha imparato tre regole semplici: non si disturbano i rapporti consolidati, non si contestano le prassi che hanno fatto carriera a chi ti valuta, non si sollevano problemi sui bandi “aggiustati” se si vuole lavorare.
Anche se domani mattina introducessimo regole perfette, ci troveremmo con una prima ondata in uscita lenta e una seconda già socializzata alla compatibilità col vecchio metodo. È per questo che dire “servono due generazioni amministrative, forse tre” non è catastrofismo: è aritmetica del potere. Se oggi si cambiassero davvero le regole, si potrebbero vedere gli effetti di una selezione sul merito e non sulla cinghia di trasmissione clientelare davvero tra moltissimo tempo. Ma se non lo facciamo, il potere resterà “altrove”: non più nel volto di Cuffaro ma nelle inerzie delle sue filiere.