Trump chiude agli stranieri: per la Cina “si tira la zappa sui piedi”. Così Pechino ne approfitta e attrae le eccellenze su tecnologie e AI
Tagli alla ricerca, controlli sugli scienziati stranieri, rincaro dei visti H-1B (per chi svolge attività specialistiche con qualifiche professionali, per un determinato periodo di tempo): la Cina osserva con attenzione Donald Trump fare a pezzi l’America. “Gli Stati Uniti si sono dati la zappa sui piedi”, titolava pochi giorni fa il sito nazionalista cinese Guangcha, specificando come la chiusura degli atenei statunitensi permetterà alla Repubblica popolare di reclutare maggiori talenti. In realtà, è quanto sta già avvenendo.
Mentre le misure trumpiane colpiscono il mondo accademico a tutto campo, la Repubblica popolare è infatti tra i principali avvantaggiati delle recenti bordate contro le università americane. La questione non è nuova. Tutto è cominciato nel 2018 quando, durante il primo mandato, The Donald ha lanciato la cosiddetta “China Initiative” per arrestare il presunto furto di segreti commerciali e attività di spionaggio economico negli istituti di ricerca. Centinaia di accademici e scienziati sino-americani sono stati indagati, di cui almeno 250 hanno ormai perso il lavoro. Molti sono stati perseguiti con accuse poi rivelate infondate e scagionati.
Sebbene Trump abbia recentemente corretto il tiro, affermando che gli studenti cinesi saranno benvenuti “per evitare che le università statunitensi “vadano a rotoli molto rapidamente”, il clima nei confronti dei ricercatori senior – i principali sospettati di spionaggio – resta piuttosto teso. Al Congresso i repubblicani premono per reintrodurre ufficialmente la controversa “China Initiative”, sospesa da Joe Biden nel 2022. Ad agosto Pechino ha denunciato interrogatori, molestie e rimpatri ai danni di studiosi cinesi al loro ingresso negli Stati Uniti.
Da uno sguardo di lungo periodo, proprio l’arrivo del tycoon alla Casa Bianca ha avuto effetti evidenti. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, tra il 2010 e il 2021, quasi 12.500 scienziati di origine cinese hanno lasciato gli Stati Uniti per la Cina. Oltre la metà lo ha fatto nei cinque anni tra il 2017 e il 2021. 85 si sono trasferiti definitivamente dall’inizio del 2024, di cui più della metà solo nel 2025.
Le ripercussioni per l’America – e per la competizione con Pechino – si preannunciano dirompenti. Nel 2020, quasi un quinto dei dottorati di ricerca in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica conferiti in America è andato a studenti della Repubblica popolare. Per decenni gli scienziati di origine cinese hanno svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo scientifico statunitense. Molti, una volta diventati cittadini americani, hanno contribuito alla stesura di brevetti e pubblicazioni scientifiche, facendo vincere agli Stati Uniti diversi premi Nobel.
Oggi il ritorno di cervelli oltre la Grande Muraglia potrebbe privare Washington di un valore aggiunto prezioso nella corsa alla leadership tecnologica. Sebbene non esistano dati ufficiali consultabili, la maggior parte delle interviste disponibili e dei casi di rimpatrio citati dai media americani riguardano ricercatori specializzati in materie quali l’IA, i circuiti integrati, le scienze matematiche e le neuroscienze. Tutti settori in cui la competizione tra Cina e Stati Uniti è più agguerrita. Tutti settori con applicazioni a “doppio uso”. “La parata militare cinese esalta il potere della matematica” titolava il South China Morning Post citando alcuni commenti del professor Shing-Tung Yau a margine delle celebrazioni del 3 settembre per l’80° anniversario della vittoria della Cina sul Giappone.
Va detto che solo in parte le responsabilità vanno attribuite al “ciclone Trump”. Già al tempo della crisi finanziaria del 2008 si era andato affermando il fenomeno delle “tartarughe marine” (haigui), i cinesi “tornati dal mare”. Un trend che negli ultimi anni è stato trainato da programmi di reclutamento governativi con promesse di milioni di dollari in finanziamenti, alloggi gratuiti e altri benefit.
Inoltre dal 1 ottobre un nuovo tipo di visto facilita l’arrivo di laureati dalle migliori università di scienze, tecnologia, ingegneria e matematica, consentendo soggiorni più lunghi e ingressi multipli senza bisogno di un’offerta di lavoro, un tirocinio, o di una sponsorizzazione locale. Un docente della Sapienza di Roma riferisce al Fattoquotidiano.it di aver ricevuto nell’ultimo anno offerte di incarichi dalla Hong Kong Polytechnic University (campus di Shenzhen) nonché dall’università di Wuhan: l’istituto avrebbe pagato viaggio, vitto, alloggio e un onorario di 5000 euro per otto giorni l’anno di lezioni per quattro anni.
Non sono delazioni prezzolate. Il paese asiatico è diventato un’eccellenza dell’innovazione. Nel 2023 la Cina ha speso oltre 780 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, la cifra più alta in assoluto dopo gli 823 miliardi erogati negli Stati Uniti. Molti istituti cinesi sono ormai regolarmente classificati tra i migliori al mondo per le materie scientifiche e tecnologiche. L’Università Tsinghua di Pechino si è affermata per la prima volta come la migliore istituzione al mondo in informatica, secondo le classifiche US News Best Global Universities e CSRankings. La Shanghai Jiao Tong University, la Zhejiang University e la Peking University seguono al terzo, quarto e quinto posto, tanto che la top 10 è ora equamente suddivisa tra università asiatiche e statunitensi.
Sempre più esplicitamente il governo cinese punta a convertire quanto sviluppato nei laboratori nell’economia reale. Programmi come Qiming puntano a inserire ricercatori di alto livello nell’industria tecnologica, in particolare nei semiconduttori, nell’AI e nella scienza quantistica. Una tendenza che rispecchia la visione cinese delle nuove tecnologie, che hanno uno scopo se sono declinabili alla crescita del Pil. Ovvero devono potenziare lo sviluppo manifatturiero che per decenni è stato trainato dal basso costo della manodopera. Ora, non più “fabbrica del mondo”, la Repubblica popolare deve puntare al vertice della catena del valore.
Nel processo di fusione tra mondo accademico e aziendale, le haigui si stanno rivelando particolarmente preziose. Esemplare è la storia di Su Fei: dopo quasi due decenni trascorsi a Intel, l’esperto di microchip ha recentemente lasciato gli Stati Uniti per la Tsinghua University, dove insegnerà a tempo pieno.
Va detto però che l’appeal della Cina ha anche parecchi limiti. Non solo in futuro la spesa destinata alla ricerca e allo sviluppo potrebbe risentire dell’inarrestabile rallentamento dell’economia nazionale. Il contesto politico non aiuta. Più restrittivo che in America (malgrado Trump), rappresenta un ostacolo alla libera circolazione di idee, dati e informazioni. Certo, per ora non ha impedito alla Cina di diventare un gigante dell’innovazione. Ma per qualcuno, ormai avvezzo agli standard occidentali, l’ingerenza del partito-stato potrebbe costituire un deterrente. Per non parlare delle pressioni a cui sono sottoposti i ricercatori cinesi. Secondo il South China Morning Post, negli ultimi anni diversi scienziati sono morti prematuramente. Un recente studio finanziato dalla York University conta almeno 38 casi di suicidi tra accademici cinesi nel periodo 2020-2024.
D’altronde, chi non si sente più benvenuto negli States, non deve necessariamente rimpatriare. Da quando nel 2023 è stato siglato un accordo di cooperazione con il China Scholarship Council, l’Italia ha riscontrato un aumento vertiginoso di studenti cinesi di IA interessati a svolgere corsi di dottorato nel paese. Complice la permissività degli atenei nostrani in termini di sicurezza, tanto che ad accedervi sono anche gli iscritti a università con conclamati collegamenti militari, come la National University of Defense Technology di Changsha. “Tra ieri e oggi mi sono arrivate ben tre richieste di studenti cinesi che vogliono venire a Roma a fare IA. Tutto pagato dalla Cina”, racconta una fonte al Fattoquotidiano.it.