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“Alla mia azienda in Danimarca importano gli obiettivi, non da dove lavoro. In Italia manca flessibilità”

La storia di Davide Aterini, 34 enne originario della Valle d’Aosta. Vive da tempo all'estero, ora a Copenaghen. "Tornare? Le dinamiche del mercato del lavoro italiano mi frenano"
“Alla mia azienda in Danimarca importano gli obiettivi, non da dove lavoro. In Italia manca flessibilità”
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“Il problema principale del sistema lavorativo italiano rimane l’autonomia che un’azienda concede, che arriva prima della retribuzione, comunque troppo bassa nel nostro Paese. Pensare di dovermi riabituare al mercato del lavoro in Italia mi frena dal ritornare: il lavoro fa parte della vita, ma non è la parte principale”. Davide Aterini, 34 enne originario della Valle d’Aosta, oggi vive a Copenaghen e lavora in un’azienda che produce software per macchinari usati nei cantieri di tutto il mondo. “Ho degli obiettivi da raggiungere e all’azienda non interessa sapere quante ore impiego e da dove lavoro – spiega Davide a il fattoquotidiano.it – la flessibilità oggi è fondamentale. Se dovessi cambiare lavoro, non scenderei a compromessi su questo aspetto”.

Davide parla cinque lingue e ha vissuto in sei paesi diversi: Australia, Nuova Zelanda, Spagna, Italia, Francia e Danimarca. In quest’ultimo è arrivato otto anni fa, iniziando da studente/lavoratore, poi è stato assunto in ambito consulenza, in una start-up, fino ad approdare all’azienda attuale, dov’è responsabile per il Sud Europa. “Dopo il liceo – racconta Davide – sono andato in Australia per lavorare, mi sono pagato il viaggio con i soldi guadagnati lavorando come magazziniere. L’avevo scelta anche perché mio padre aveva dei parenti lì, emigrati dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Studia, lavora, si interessa allo studio delle lingue. E un anno e mezzo dopo torna in Italia e si iscrive all’Università della Valle d’Aosta, dove si laurea in Lingue e comunicazione per l’impresa e il turismo, in italiano e francese. Poi un periodo di lavoro in Nuova Zelanda e in Spagna, a Ibiza. Nel frattempo fa domanda per la magistrale alla Copenhagen Business School, terminando gli studi durante l’inizio del Covid. “Da studente avevo accesso al sussidio per chi lavora part-time frequentando i corsi: circa 800 euro netti al mese più lo stipendio – racconta Davide –. Il concetto che c’è dietro è quello di approcciare fin da subito il mondo del lavoro”. E il sistema universitario danese, a differenza dell’Italia dove chi lavora mentre frequenta l’università è ancora mal visto, è molto flessibile. “I due mondi comunicano. I ragazzi danesi sono abituati a lavorare fin da giovanissimi, spesso trovi ragazzi di 16 anni dietro le casse dei supermercati. E rispetto al sussidio da studenti – sottolinea Davide – se vanno a vivere da soli dopo i 18 anni e glielo aumentano anche per incentivarli a costruirsi una loro indipendenza”.

Dopo la laurea Davide approda in un’azienda che fa consulenza per una multinazionale farmaceutica, con contratto a tempo indeterminato, poi in una startup e lo scorso anno viene assunto nell’attuale azienda, dove oggi ricopre il ruolo di responsabile per Spagna, Francia e Italia. “Qui senti che investono su di te, cercando di farti sentire più a tuo agio possibile e dandoti fiducia. Ad esempio se devi prenderti delle ore libere per andare dal medico puoi farlo, lo segnalerai poi all’azienda. Oppure la gerarchia interna: il tuo capo si siederà con i subordinati, e puoi chiamarlo per nome”, spiega Davide. “Ho amici in Italia che devono prendersi delle ferie quasi obbligate in agosto. Qui non ci sono limiti di date, tu hai un monte annuale e le gestisci tu in base a quando ti servono, è l’azienda che deve coprirti e non viceversa”. E in Danimarca si può contare anche su un welfare che funziona: “Fin dall’università puoi iscriverti gratuitamente all’assicurazione di disoccupazione, che diventa un premio una volta che trovi lavoro – spiega Davide – 2000 euro netti al mese che ti coprono ogni qualvolta tu perda il lavoro o decida di licenziarti, fino ad un massimo di 2 anni di disoccupazione”.

La vita fuori dall’orario di lavoro rispecchia quel senso di prendersi il proprio tempo. “Copenaghen è una città a misura d’uomo. Ha molti spezi verdi, è collegata all’acqua. Non hai bisogno dell’auto: treni, metro e bus funzionano. Se vuoi un mezzo tuo hai una rete infrastrutturale per biciclette di ultima generazione. Io arrivo a lavoro con la mia, non devo perdere tempo nel trovare parcheggio o a pagarlo. A livello di stipendi qui si guadagna molto di più che in Italia, indipendentemente dalla tipologia di lavoro e a livello contributivo conviene. Senza contare che l’autonomia che ho qui non la troverei da noi. Se voglio lavorare due settimane in Valle d’Aosta non devo neanche chiederlo”. Davide ha comprato un appartamento dove vive con la sua compagna, ed è felice. “Vivere in un Paese diverso da quello in cui si è nati all’inizio può essere un piccolo trauma ma come investimento a lungo termine alla fine paga – afferma – sono soddisfatto delle scelte fatte, se tornassi indietro non cambierei nulla. L’Italia? Mi piacerebbe tornare, sono legato al mio paese del punto di vista culturale, qui non riesco ad essere l’italiano che sarei lì. Le dinamiche del mercato del lavoro italiano mi frenano. Forse tornerò da pensionato ma oggi vedo qui il mio futuro”.

Sei una italiana o un italiano che ha deciso di andare all’estero per lavoro o per cercare una migliore qualità di vita? Se vuoi segnalaci la tua storia a fattocervelli@gmail.com

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