La rivincita perfetta di Jannik Sinner. A Wimbledon il suo capolavoro
Nello sport in generale per curare una ferita c’è una sola medicina, la rivincita. Nell’epoca tennistica del dualismo Alcaraz-Sinner sapevamo che una finale per la rivincita sarebbe arrivata, avevamo anche auspicato che arrivasse il prima possibile, e così è stato. Con addosso tutte le scorie della sconfitta al Roland Garros ci siamo fermati tutti, in tantissimi, puntuali alle 17 (ora più che mai italiana) per seguire la finale di Wimbledon. Coi nostri riti, i nostri posti sul divano, o sul telefonino perché in viaggio o in spiaggia. Tutti uniti per spingere il nostro Jannik da un luogo che, tre ore dopo, abbiamo capito che ricorderemo per sempre.
Le grandi vittorie sportive restano dentro di noi, anche e soprattutto, perché in quell’istante di massima felicità ci troviamo in un posto che diventa speciale, che sia la piazza più grande e bella del mondo o uno scantinato, eravamo nel posto giusto al momento giusto. Coi nostri pensieri se da soli, con gli amici o i parenti, o con perfetti sconosciuti che alla fine abbracci pure dopo aver condiviso sofferenze e speranze. La festa che allunga quell’istante di estasi serve a trattenere quel momento che è già fugace, sfuggevole pure per il campione stesso, figurarsi per noi che abbiamo “solo” tifato. Ma la festa interiore appartiene a ciascuno di noi e anche se si sedimenta, può durare quanto vogliamo. Quella dopo il successo del primo italiano a Wimbledon (dopo 138 edizioni del torneo) ha a che fare con l’eternità, e si manifesterà, più e più volte, al pronunciarsi di un semplice “io c’ero (i più fortunati che erano sugli spalti del Centre Court) o “l’ho vista tutta”.
È la storia che si manifesta e, come la storia del mondo ci insegna, con tappe ed episodi che ti fanno credere a un disegno.
La vittoria di Jannik Sinner sull’erba inglese è figlia della polvere di terra parigina, una nube rossa che avrebbe accecato chiunque di rabbia e frustrazione. Non Jannik che, come sempre, è ripartito con calma, ancora una volta dopo lo stop di tre mesi, con in testa quel solo obiettivo, la rivincita. Invertendo il noto proverbio “L’uomo ordisce e la fortuna tesse”, sulla strada della finale, la fortuna ha tessuto una trama inaspettata quando la spalla di Dimitrov, che avrebbe meritatamente vinto il match, ha ceduto lasciando il passo a Jannik che ha saputo raccogliere il dono.
Per l’ennesima volta ha lavorato su sé stesso e con olio di gomito (quello ammaccato) ha iniziato a ordire la sua vendetta. Il significato del proverbio rimane immutato: la fortuna è fondamentale, ma bisogna essere predisposti a riceverla. Come Sinner che, dopo quel passaggio a vuoto, ha schiacciato tutti, Alcaraz compreso. Non senza aggiungere quel pizzico di tensione con quel set di apertura perso. Coronarie nostre a parte, la tensione era altissima perché in gioco non c’era “solo“ la coppa, “The Gentlemen’s Singles Trophy”, ma c’era da invertire l’inerzia psicologica che vedeva lo spagnolo incutere soggezione al nostro numero uno. L’8 a 4 nelle sfide fra loro (fino a ieri) e ciò che è successo a Parigi ci diceva che Alcaraz era la nemesi di Jannik, che forse il vero numero 1 era Carlos, uomo da 5 su 5 nelle finali Slam fino a ieri disputate. Questa convinzione ieri è crollata, nel quarto set Alcaraz ha smarrito ogni certezza, scarico e in continua seduta psicologica con il suo angolo.
Jannik Sinner ha compiuto il suo capolavoro e colto la rivincita con impegno, pazienza, studio dell’avversario, allenamento, confronto e nervi d’acciaio. Tutte qualità che noi tutti dovremmo utilizzare di più, in ogni ambito. Lui che le unisce a quelle tecniche, eccelse, del suo tennis, è un campione assoluto, un esempio, il numero uno. E che l’anno prossimo dalle tribune del Centre Court piovano solo tappi di spumante!