Dazi Usa al 30%, piegarsi o reagire? Ecco le possibili contromisure Ue dopo l’annuncio di Trump
Cedere alle richieste di Donald Trump. Che, nella lettera appena recapitata alla Ue, apre alla possibilità di una “modifica” ai dazi del 30% su tutto l’export in arrivo dal Vecchio continente se i Ventisette elimineranno “politiche tariffarie e non tariffarie e le barriere commerciali” che a suo dire danneggiano gli Usa. Oppure rispondere con contromisure, che potrebbero però scatenare un’escalation visto che Washington minaccia ulteriori aumenti nel caso ci siano reazioni. È il dilemma che dovrà risolvere Ursula von der Leyen, indebolita dal voto del Parlamento europeo sulla sfiducia che ha svelato un crollo dei consensi nei suoi confronti. A caldo, davanti all’annuncio di dazi tripli rispetto al livello su cui si sperava di firmare a breve un’intesa preliminare, la presidente della Commissione ha ripetuto il mantra che i funzionari europei recitano da settimane: continuiamo a trattare – anche se fin qui i negoziati condotti dal commissario Maros Sefcovic non hanno portato risultati – ma se necessario “adotteremo tutte le misure necessarie per salvaguardare gli interessi dell’Ue”.
Piegarsi al ricatto? – Accettare le confuse condizioni poste dal tycoon per rivedere la propria decisione sembra fuori discussione, visto che le contestazioni statunitensi alla Ue, principale partner commerciale degli Stati Uniti, non sono basate su fatti reali. I “deficit commerciali di lungo termine” generati – stando alle contestazioni della Casa Bianca – “dalle vostre politiche tariffarie e non tariffarie e dalle vostre barriere commerciali” sono discutibili se si considera che, guardando ai soli servizi, Washington vanta al contrario un surplus di quasi 150 miliardi di euro (dato 2024). Le barriere tariffarie sono bassissime: i dazi medi effettivi applicati sui beni Usa ammontano a circa l’1%, secondo la Commissione. L’Iva, che Trump considera alla stregua di un dazio che favorisce le merci prodotte all’interno della Ue, è al contrario neutrale e non distorce in alcun modo la concorrenza tra i prodotti comunitari e quelli importati. L’unico piano su cui può esserci spazio per trattare è quello delle barriere non tariffarie: ostacoli regolatori, burocratici o tecnici come gli standard sanitari e fitosanitari (studiati per proteggere la salute dei consumatori), i requisiti di etichettatura e le norme ambientali. E poi, anche se non si tratta in senso stretto di misure commerciali, il Digital services act e il Digital markets act, che secondo Washington impongono paletti troppo stringenti alle grandi aziende digitali. L’Office of the United States Trade Representative e il Dipartimento del Commercio Usa li ritengono “discriminatori” nei confronti delle multinazionali Usa. Cedere, in tutti i casi, significherebbe accettare di rinunciare a misure di tutela dei consumatori e utenti. Senza alcuna certezza sul fatto che il tycoon a quel punto si ritenga soddisfatto.
Le contromisure commerciali – Se invece si deciderà di reagire in modo muscolare, la risposta dell’Europa al ritorno dei dazi trumpiani è già scritta. Il pacchetto dei controdazi è pronto da mesi. Potrebbe essere accompagnato da armi strategiche ancora tenute nel cassetto: le sanzioni contro le Big Tech americane e limiti agli investimenti Usa sul suolo europeo, dalle infrastrutture ai servizi.
Il piano, che al momento risulta congelato fino al 14 luglio per dare spazio alla diplomazia, prevede dazi mirati su prodotti-simbolo delle roccaforti repubblicane. Verrebbero colpiti in prima battuta – la misura era stata decisa come risposta ai dazi su acciaio e alluminio e successivamente sospesa – Harley-Davidson, jeans Levi’s, burro d’arachidi, mirtilli, tabacco, cosmetici e articoli per la persona, prodotti già finiti nel mirino europeo durante il primo mandato del tycoon. Un secondo pacchetto di ritorsioni che gli Stati membri devono ancora votare prevede dazi del 25% su carne – dai tacchini con peso superiore ai 185 grammi alle salsicce di fegato, passando per i tagli bovini disossati di Kansas e Nebraska -, soia, yogurt, derivati del latte, beni industriali come stufe, forni, congelatori e tosaerba, calzature e capi di abbigliamento, elettronica leggera. Infine il legname, pilastro dell’economia di Georgia, Virginia e Alabama.
Lo strumento per colpire i gruppi digitali – Meno probabile che Bruxelles pensi davvero di attivare per la prima volta il meccanismo anti coercizione varato nel 2023 come arma di difesa nei confronti della Cina. Battezzato “bazooka” per la potenza di fuoco, consentirebbe per esempio una stretta sugli appalti pubblici destinata a escludere aziende americane, il ritiro di licenze di importazione, lo stop all’accesso ai mercati assicurativi e finanziari e allo sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale. Ai gruppi Usa potrebbe così essere impedito di monetizzare servizi come lo streaming o l’uso dei loro software. Per utilizzare il meccanismo serve però un voto a maggioranza qualificata in Consiglio: devono esprimersi a favore 15 Paesi su 27 in rappresentanza di almeno il 65% della popolazione del blocco. Il presidente francese Emmanuel Macron ha esplicitato di essere a favore di questa opzione, ma altri grandi Stati a partire dall’Italia sono convinti che una postura troppo muscolare sarebbe controproducente.