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Ddl femminicidio, la maggioranza riscrive il reato: punirà solo chi uccide una donna per reazione a un “rifiuto”

Dalla norma saltano i riferimenti alla repressione dei "diritti" o della "personalità" delle vittime, giudicati troppo vaghi dagli addetti ai lavori. Ma così alcuni casi rischiano di rimanere esclusi
Ddl femminicidio, la maggioranza riscrive il reato: punirà solo chi uccide una donna per reazione a un “rifiuto”
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La maggioranza riscrive il reato di femminicidio. Durante l’esame in Commissione Giustizia al Senato, le relatrici del ddl varato dal governo – la presidente Giulia Bongiorno, della Lega, e Susanna Campione di Fratelli d’Italia – hanno presentato un emendamento che modifica in profondità la nuova fattispecie introdotta nel codice penale, riducendone il campo di applicazione. Nel testo uscito a marzo dal Consiglio dei ministri, infatti, si prevede che l’articolo 577-bis punisca con l’ergastolo chi uccide una donna “come atto di discriminazione o di odio” verso la vittima “in quanto donna”, oppure “per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità“. Con l’emendamento delle relatrici, quest’ultima espressione sparisce e viene sostituita da un riferimento molto più preciso: il nuovo reato si applica quando l’assassinio è “conseguenza del rifiuto” della donna “di stabilire o mantenere una relazione affettiva ovvero di subire una condizione di soggezione o comunque una limitazione delle sue libertà individuali, imposta o pretesa in ragione della sua condizione di donna”. La stessa modifica viene apportata alle varie aggravanti previste dal provvedimento per altri reati (ad esempio maltrattamenti in famiglia, lesioni, stalking).

L’emendamento, voluto dal governo, va incontro alle critiche espresse in audizione dagli addetti ai lavori sull’eccessiva indeterminatezza del reato. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Cesare Parodi, pm esperto in violenza di genere, aveva avvertito della difficoltà giuridica di “fornire una prova adeguata” di un aspetto psicologico complesso come la volontà di soffocare la libertà di una donna. Mentre il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università Statale di Milano, aveva denunciato come “i margini della fattispecie” fossero “eccessivamente ampi e non sufficientemente definiti”, tanto da offrire alle difese “molti appigli per evitare la condanna per femminicidio in favore di quella per omicidio” (che come pena base, senza aggravanti, ha 21 anni). Proprio Gatta aveva suggerito di integrare la norma per renderla più specifica, aggiungendo ad esempio riferimenti a “ricorrenti motivi alla base dei femminicidi, frutto dell’osservazione criminologica”. La maggioranza però ha scelto di sostituire quasi completamente il testo dell’articolo con la nuova definizione, rischiando così di renderlo inapplicabile ai casi in cui il femminicidio non è riconducibile a un “rifiuto” della vittima: un esempio può essere la vicenda di Giulia Tramontano, uccisa nel Milanese dal fidanzato Alessandro Impagnatiello, appena condannato in Appello all’ergastolo per omicidio pluriaggravato.

Nessuna modifica, invece, è stata proposta dalle relatrici in merito alle due previsioni contestate dalla magistratura per le loro potenziali ricadute organizzative: l’estensione del catalogo dei reati che prevedono un processo di fronte a un collegio di tre giudici (e non a uno solo) e l’obbligo del pm di sentire personalmente (senza poter delegare la polizia giudiziaria) la persona offesa entro tre giorni dalla denuncia, se quest’ultima ne fa richiesta nelle indagini per i delitti di violenza di genere (le cosiddette fattispecie da “codice rosso”). Oltre che con l’audizione del presidente Parodi, la giunta esecutiva dell’Anm aveva esposto preoccupazioni su queste novità in un documento consegnato al ministro della Giustizia Carlo Nordio in occasione dell’incontro tenuto a metà aprile. Nel testo si legge che “l’assoluta maggioranza delle Procure sono gravate da un carico di lavoro elevatissimo” su questo tipo di reati, “spesso già ora tale da impegnare incessantemente un elevato numero di sostituti”: per questo, “se il pm dovesse provvedere personalmente a sentire tutte le persone offese non potrebbe dedicarsi a tutti gli aspetti non delegabili ma indispensabili per predisporre una rapida ed efficace tutela, specie in relazione alla richiesta tempestiva di misura cautelare”. Anche il procuratore di Tivoli Francesco Menditto, uno dei magistrati italiani più esperti della materia, in un’intervista al Fatto ha definito la norma “inapplicabile a meno di non triplicare il numero dei pm”.

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