Caro condannato a morte, ti scrivo: le lettere che partono da Sant’Egidio e arrivano nelle carceri statunitensi
“Ieri una guardia è venuta alla mia cella e mi ha chiesto: ‘Kenneth, come stai?’, poi ha aggiunto ‘che taglia di camicia hai, di pantaloni? Il numero delle scarpe? Quanto sei alto, quanto pesi? Parlano all’agnello catturato per essere portato al macello. Pensavo: vi siete dimenticati che sono un essere umano o solo non ve ne importa? Poi ho pensato: non è la stessa indifferenza per la vita umana che mi ha portato qui?”. Questo toccante passaggio è contenuto in una lettera inviata da Kenneth Williams, condannato a morte e ucciso in Arkansas 28 aprile 2017, e inviato al suo “amico di penna” della Comunità di Sant’Egidio. Comunità che trent’anni esatti porta avanti il progetto, coordinato da Stefania Tallei, una vita come dipendente Asl, oggi in pensione, “Scrivi a un condannato a morte”.
Tutto inizia nel 1995 con la richiesta di un condannato a morte in Texas, Dominique Green: “So che non puoi fare molto per aiutarmi, ma sicuramente puoi scrivermi una lettera, ti risponderò”. Una persona della Comunità di Sant’Egidio rispose a questo giovane ragazzo nero, che si era trovato in mezzo a una banda, accusato e condannato. Da lì altre persone, e poi sempre di più, della Comunità fondata da Andrea Riccardi, hanno iniziato a scrivere ai condannati a morte negli Stati Uniti. Unendo anche alle lettere azioni legali di difesa dei condannati, appelli per salvarli, aiuti economici. “Dominique è stato accompagnato dalle nostre lettere per dieci anni, poi purtroppo è stato giustiziato”, spiega Stefania Tallei.
L’attenzione per i carcerati e per la pena di morte è iniziata negli anni Novanta. Attenzione coerente con il Vangelo, spiegano da Sant’Egidio, che dà mandato di visitare i carcerati ma anche di liberare i prigionieri, un’espressione biblica.
Dopo il caso Dominique Green, la possibilità di contattare via lettera chi sta solo, isolato, nel braccio della morte si è diffusa come un tam tam e continua anche oggi. Non solo il Texas, ma anche la Georgia, il North Carolina, il South Caroline, l’Oklahoma. “Negli anni abbiamo raggiunto migliaia di condannati, accompagnandoli fino alla morte e oggi ci sono tra le 300 e le 350 corrispondenze attive”, spiega Tallei. Le lettere vengono lette, ma raramente censurate. Sono uno spazio libero per i condannati perché parlano di tutto, si autodescrivono, quanto sono alti, quanto pesano, gli sport che amano fare, i film che gli piacciono. Ci sono persone che hanno fatto partite a scacchi via lettera”.
La Comunità dà ovviamente indicazioni alle persone che vogliono scrivere su come farlo. Frasi semplici, brevi, molti di questi uomini non hanno studiato, parlano solo lo slang, provengono da contesti problematici, da zone periferiche. Ma anche: non creare false aspettative, continuare a scrivere se il detenuto interrompe, evitare di chiedere del reato, sapere che le lettere sono sottoposte a censura. La Comunità sconsiglia sempre di accennare, nelle lettere, al reato compiuto, di cui gli stessi condannati non parlano. Li metterebbe in difficoltà. “Ovviamente non vanno neanche giudicati, hanno già ricevuto tra l’altro il giudizio più completo”, precisa Tallei. Utile e importante invece chiedere se hanno familiari, fratelli, farsi raccontare l’infanzia.
Rispetto al passato, oggi i detenuti possono usare il computer. Le lettere cartacee invece vengono smistate e consegnate, in molte ci sono fotografie. Contengono, appunto, descrizioni di sé, opinioni ma anche paura. “Durante il Covid molti erano spaventati, vedevano i condannati portati via e non tornare. Un uomo mi ha scritto: L’altro ieri hanno portato via il mio vicino di cella, dicono che era svenuto; ma nei giorni precedenti hanno portato via anche altri da altri bracci. Un altro è caduto in corridoio, ho sentito le guardie correre via, non so che succederà. Ci sono medicine o moriremo tutti?”.
Il momento in cui stare più vicini al condannato è quando viene comunicata la data dell’esecuzione. “Noi facciamo appelli, scriviamo ai governatori – spiega Tallei –. A volte siamo riusciti a fermare l’esecuzione. Se la maggior parte dei condannati ha commesso crimini efferati, abbiamo anche conosciuto persone innocenti, come una famiglia che facendo l’autostop era stata involontariamente coinvolta in una sparatoria. Sia lei che il marito sono stati condannati a morte, la bambina è stata loro tolta. Lui è stato ucciso, lei ne è uscita distrutta dopo cinque anni. È venuta varie volte in Italia, anche nelle scuole. Un altro innocente liberato venne una volta a Roma e sapeva talmente tante cose sulla città perché nel braccio della morte, per non impazzire, aveva letto 9.000 libri, comprese le guide turistiche”.
La vita nel braccio della morte è terribile. In Oklahoma il carcere è costruito sotto terra per evitare evasioni, solo luce elettrica. Fanno l’ora da soli, dentro una specie di gabbia. In Texas addirittura da quando si viene condannati non si viene più toccati fisicamente da nessuno. Suicidarsi anche è impossibile, sono guardati costantemente. Vengono curati se malati perché devono arrivare sani all’esecuzione. Hanno il permesso di avere una cassetta di cose proprie, ma quando si riempe buttano tutto. Hanno periodi di isolamento completo. “Ma soprattutto”, continua Tallei, “ha preso piede negli Usa, vista la carenza di prodotti per l’iniezione letale, l’uccisione tramite asfissia, o meglio ipoplasia. Oppure vengono sparati: è accaduto il 7 marzo e l’11 aprile”.
Molti degli amici di penna dei condannati a morte sono andati a trovarli: viaggi costosi e faticosi. “Ricordo una famiglia di tre persone dove la figlia aveva iniziato a scrivere, e poi anche i genitori. Fecero un viaggio in Canada che il condannato seguiva con la mappa. La figlia andò invece anche a trovare il condannato. Ma ricordo anche un povero salvadoregno con cui abbiamo avuto una corrispondenza trentennale. Alcuni volontari andarono a trovare la madre, che non riusciva ad andare dal figlio. È stato molto bello”.
Un elemento importante è l’aspetto religioso. I condannati pregano, ognuno secondo la propria religione, “si aggrappano a ciò che possono”, ricorda Stefania.
Ma, Stati Uniti a parte, ci sono amici di penna con i condannati negli altri Paesi del mondo? Poco o nulla perché la corrispondenza con i condannati è quasi del tutto impossibile, ad esempio in Cina, dove però sono diminuiti i reati punibili con la morte, o in Iran dove spesso le esecuzioni sono subito esecutive. “Lo abbiamo fatto anni fa in Russia”, spiega Tallei, “con un carcere in Siberia, adesso hanno fermato le esecuzioni anche se la legge resta. E anche in Africa, oggi in prima linea nell’abolizione. Per fortuna sono tanti gli Stati che l’hanno tolta, così come in America Latina, Caraibi a parte. Ma il problema dell’Africa è un altro: spesso sono così poveri da non avere cibo, figuriamoci se i condannati hanno penne e francobolli, bisogna mandargli tutto”.