Ciò che accade a Gaza non c’entra col 7 ottobre: è un progetto politico. E la destra Ue tace e acconsente

di Lucio Aquilina
Non si tratta più solo di una guerra: ciò che accade in Israele e Palestina rappresenta la trasformazione ideologica di uno Stato democratico, l’emersione di una destra che non si vergogna più della propria barbarie e il silenzio complice delle destre europee.
La narrazione dominante riduce il conflitto a una reazione: Hamas ha colpito il 7 ottobre, ha commesso crimini efferati e tiene ancora ostaggi. Israele risponde. Ma questa lettura oscura il vero nodo: ciò che avviene a Gaza non è un effetto collaterale della guerra, bensì l’attuazione di un progetto politico e ideologico consolidato.
Gaza è un sintomo, non un’eccezione: dalla fine del processo di Oslo e l’assassinio di Rabin, l’estremismo religioso e nazionalista ha guadagnato spazio nelle istituzioni israeliane. Le comunità dei coloni, armate e radicate nei territori occupati, condizionano le scelte strategiche dello Stato, ponendo la loro sopravvivenza come alternativa a quella del popolo palestinese. La loro influenza si estende alla sfera politica, economica e militare, dando forma a un nazionalismo escludente. La democrazia israeliana, pur formalmente funzionante, è dominata da forze che considerano la presenza palestinese una minaccia all’identità nazionale. L’occupazione della Cisgiordania e il blocco di Gaza non sono più misure difensive ma strumenti strutturali per la cancellazione della sovranità e dell’identità palestinese, attraverso la distruzione sistematica delle infrastrutture civili e l’eliminazione burocratica dell’esistenza di un popolo.
La strategia israeliana si inserisce in una più ampia cornice internazionale: quella delle nuove destre europee, che rifiutano il diritto internazionale, delegittimano le istituzioni multilaterali (Onu, Cpi, ong) e normalizzano l’uso della forza. Questo “neolittorismo” si manifesta nel rifiuto della mediazione, nella violenza come metodo e nell’autonomia assoluta degli Stati forti.
Le destre europee tacciono, ma acconsentono. L’inazione dell’Ue — anche di fronte a sentenze della Corte Penale Internazionale — non è solo prudenza geopolitica, ma adesione ideologica. La presidente della Commissione agisce spesso fuori da un mandato comune, legittimando scelte unilaterali (come il riarmo nazionale) e contribuendo alla disgregazione dell’unità europea. È una convergenza culturale su un principio condiviso: il potere non si limita, si esercita. Anche contro il diritto.
Le parole di Spinelli tornano tragicamente attuali: “La barbarie nasce dall’unilateralismo, dalla rottura della dimensione comune dell’agire.” L’Europa sembra ignorare questo monito, lasciando spazio a logiche di forza che ci riportano indietro nel tempo, verso scenari già visti. Cosa fare, oggi? Non basta più la testimonianza individuale. Serve una risposta politica, collettiva e transnazionale. Un nuovo movimento europeo per la pace, che difenda le istituzioni multilaterali e colleghi le crisi — Gaza, Ucraina, diritto internazionale — in un’unica battaglia per la giustizia e la legalità globale. La lotta per Gaza è anche nostra, e il tempo per agire sta per finire.