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Serve a qualcosa il festival di Cannes? Qualche riflessione su incassi e scelte etiche

A volte ci si chiede se i premi dei festival hanno influenza sugli incassi. Non sempre accade, è vero. Ma la vera creazione di valore è data più dalla partecipazione che dal premio
Serve a qualcosa il festival di Cannes? Qualche riflessione su incassi e scelte etiche
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Finito Cannes, viva Cannes. Qualche considerazione a margine del festival, per capire meglio il senso di questo circo che mobilita ogni anno parecchie decine di migliaia di persone.

Serve a qualcosa il festival di Cannes o è solo un grande gesto di autocompiacimento del cinema che celebra sé stesso in mezzo allo sfarzo e alle luci? Prima questione, i soldi. Cannes è un gigantesco moltiplicatore di denaro: ha un budget di 35 milioni di euro, tra fondi pubblici e privati, e genera ricadute economiche per oltre 200 milioni di euro. Il festival è anche il primo mercato mondiale per i film: se non ci fosse il mercato, che mobilita centinaia di milioni di dollari, Cannes non sarebbe Cannes (sarebbe Venezia).

Per farsi un’idea, gli accreditati del mercato sono ogni anno più di 15.000 e il badge per questo segmento di frequentatori arriva a costare anche oltre 4.000 euro. Per capire il giro d’affari, basta l’esempio di Mubi, che ha comprato i diritti di Die, My Love di Lynne Ramsay – film che non spiccava nella competizione e infatti non ha preso premi – per 24 milioni di dollari: lo distribuirà in America e in una decina di altri paesi, tra cui l’Italia.

A volte ci si chiede se i premi dei festival hanno influenza sugli incassi. Non sempre accade, è vero. Ma la vera creazione di valore è data più dal passaggio al festival che dal conseguimento di un premio. Da tradizione, il film di apertura di Cannes esce in Francia nello stesso giorno. Quest’anno il festival è stato inaugurato il 13 maggio, fuori concorso, dal non memorabile Partir un jour di Amélie Bonnin. Nel primo week-end di programmazione francese il film, peraltro opera prima della regista e privo di attori di spicco, ha richiamato la bellezza di 182.000 spettatori, secondo soltanto al blockbuster internazionale Final Destination – Bloodlines. 40.000 spettatori hanno visto il film il 13 maggio, quasi volessero in un certo senso condividere la cerimonia di inaugurazione vedendo lo stesso film simultaneamente ai mille e trecento fortunati del teatro Lumière sulla Croisette. Avrebbe mai fatto numeri simili se non fosse passato a Cannes quel giorno?

Seconda questione, la rivendicazione di una scelta etica che ha accomunato molti momenti del festival, dalle parole di De Niro nella serata di apertura al breve discorso con cui Jafar Panahi ha ritirato la Palma d’oro per il suo Un simple accident, storia limpida, tra thriller e grottesco, e apologo politico contro il regime iraniano di cui lo stesso regista è vittima da anni. Parole chiare, che in altri momenti si sono levate anche su Gaza, sull’Ucraina, su altre guerre del mondo. Cannes fa una scelta di campo, che non è solo il contentino salva-anime per piccoli borghesi che seguono il festival. È, molto semplicemente, la riaffermazione del binomio arte-libertà, minacciato non solo nei regimi oppressivi. I festival come Cannes servono anche a questo – ma solo Cannes è così esplicito nel prendere posizioni – e non c’è contraddizione tra l’affermazione di un principio e il glamour che circonda la Croisette.

Infine l’Italia: per il cinema italiano i grandi festival sono un’occasione privilegiata per misurarsi con la produzione internazionale e vedere che (quasi) sempre non siamo in prima linea. Martone, unico italiano nel concorso principale, è restato a bocca asciutta. Il suo Fuori è troppo legato a un immaginario italiano, anzi romano, per ambire all’apprezzamento di una giuria e di una critica internazionali. Non a caso nella classifica stilata da Screen il film di Martone è all’ultimo posto del gradimento della critica, mentre Panahi già prima della Palma era al primo.

Le ragioni di questa debolezza, non tanto di questo film ma del cinema italiano che non sa incantare fuori dai nostri confini, possono essere molte, da sistemi produttivi troppo legati a condizionamenti territoriali a un modo di raccontare non in linea con il cinema di oggi. O più semplicemente i film italiani sono troppo pensati: ci vorrebbe un Truffaut per rinsanguare questo cinema un po’ anemico.

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