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Caso Almasri, la memoria presentata dal governo alla Corte dell’Aja: “È stata data priorità alla richiesta di estradizione libica”

Nelle 14 pagine delle “osservazioni” inviate il 6 maggio e rese pubbliche ieri si legge: "La presenza di richieste concorrenti e la complessità delle valutazioni affidate al ministro della Giustizia erano ontologicamente incompatibili con qualsiasi ipotesi di obbligo immediato – che comunque non esisteva – di trasmettere i documenti al Procuratore generale della Corte d’appello”
Caso Almasri, la memoria presentata dal governo alla Corte dell’Aja: “È stata data priorità alla richiesta di estradizione libica”
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Il governo italiano sostiene che la richiesta di estradizione libica fosse un buon motivo per non consegnare il presunto torturatore Osama Almasri Njeem alla Corte penale internazionale (Cpi), che ne aveva chiesto l’arresto. È il cuore della memoria difensiva trasmessa con notevole ritardo da Roma alla Corte dell’Aja per evitare la pubblica censura davanti all’Assemblea degli Stati o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, secondo le procedure dello Statuto di Roma che disciplina la Cpi. “L’Italia è stata chiamata a valutare quale richiesta dovesse avere la priorità”, si legge nelle 14 pagine delle “osservazioni” inviate dal governo il 6 maggio alla I Camera preliminare della Corte e rese pubbliche, con omissis, ieri, in risposta alle accuse di mancata cooperazione formulate il 17 febbraio.

Le firma Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che per conto di Giorgia Meloni ha messo fuori causa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, al quale spettava di dare corso alla richiesta di consegnare Almasri. Come si ricorderà, Nordio non inviò alla Procura generale di Roma il mandato d’arresto dell’Aja in base ai quali il potente ufficiale libico, il 19 gennaio scorso, era stato arrestato a Torino dalla locale Digos. “Arresto eseguito erroneamente”, sostiene Mantovano nella memoria, bacchettando in un certo senso anche la polizia: cosa doveva fare la Digos in presenza di una red notice Interpol che sollecitava l’arresto? Secondo il governo doveva attendere che Nordio leggesse gli atti e li mandasse alla Procura generale, che poi avrebbe chiesto un’ordinanza di custodia per il generale libico.

La Corte d’appello scarcerò Almasri il 21 gennaio, con un ragionamento molto contestato da eminenti giuristi, quando da Roma era già partito l’aereo dei Servizi che avrebbe poi riportato a Tripoli il generale ricercato, accolto trionfalmente tra frizzi e lazzi contro l’Italia proprio davanti al velivolo con le insegne tricolori. È il genere di accoglienza che non ti aspetti per un estradato per reati gravissimi, che infatti è ancora libero nel suo Paese. Eppure l’argomentazione di Mantovano è netta: “La presenza di richieste concorrenti (quella della Cpi e appunto quella libica, ndr) e la complessità delle valutazioni affidate al ministro della Giustizia erano ontologicamente incompatibili con qualsiasi ipotesi di obbligo immediato – che comunque non esisteva – di trasmettere i documenti al Procuratore generale della Corte d’appello”, si legge in grassetto nel documento del governo.

Sembra prefigurarsi qui anche una difesa contro eventuali accuse del Tribunale dei ministri, che sulla base di due denunce sta indagando su Meloni, Mantovano, Nordio e sul ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Se non c’era l’obbligo, non c’è stata omissione d’atti d’ufficio, l’ipotesi di reato apparsa subito più insidiosa delle altre due, favoreggiamento e peculato, in particolare a carico di Nordio. Secondo l’art. 4 della legge 237/2012, infatti, “il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale” e non dispone dei poteri discrezionali previsti in materia di estradizione. Mantovano ora si appella all’art. 17 dello Statuto di Roma, che dichiara “improcedibile” il caso quando “sono in corso di svolgimento indagini o provvedimenti penali condotti da uno Stato” ma assegna i poteri alla Cpi, non ai governi. Il nostro governo, invece, sembra voler giudicare al posto della Corte.

La richiesta di estradizione libica era datata 20 gennaio, nessuno del governo ne parlò in quei giorni. La inviò l’ambasciatore libico a Roma al ministro degli esteri Antonio Tajani, quando Almasri era già in cella a Torino. Riguardava crimini di guerra e contro l’umanità, compresi omicidi e violenze sessuali, in larga parte sovrapponibili a quelli del mandato d’arresto della Cpi. Non è l’unico argomento della memoria difensiva italiana, è però il principale. Gli altri sono quelli noti, già dichiarati da Nordio in Parlamento: Mantovano definisce “autonome ed esclusive” le “valutazioni della Corte d’appello di Roma” che scarcerò Almasri; ricorda le asserite “incongruenze” sulle date iniziali dei reati contestati al generale libico, che in alcuni passaggi del mandato d’arresto risalgono al 2011 e non al 2015, spiegando che l’Italia non attivò la procedura di “consultazione” con la Cpi prevista dallo Statuto, “non per sottrarsi ai suoi obblighi” ma per le “particolari circostanze” del caso; rivendica la scelta di espellere Almasri, che infatti non fu “estradato” in Libia, per via della sua “pericolosità”. Era, scrive il sottosegretario, “la misura più rapida da adottare per motivi di sicurezza nazionale”. Mantovano sottolinea anche che si trattava del primo caso di applicazione della legge 237 con cui l’Italia ha recepito lo Statuto della Cpi. E ricorda il mancato coinvolgimento del nostro Paese nei mesi e nei giorni precedenti l’emissione del mandato d’arresto, quando la ricerca di Almasri era limitata alla Germania, sia pure senza esplicitare il sospetto che qualcuno abbia voluto mettere in difficoltà l’esecutivo di un Paese che ha rapporti particolarmente stretti e intricati con la Libia.

Su questa base il governo chiede alla Corte di “stabilire che l’Italia non ha mancato di adempiere al proprio obbligo di cooperare, avendo invece dovuto salvaguardare i propri interessi di sicurezza nazionale” e “di conseguenza astenersi dal rinviare la questione all’Assemblea degli Stati Parte” della Cpi “o al Consiglio di sicurezza” dell’Onu. Una pubblica censura sarebbe una sanzione pesantissima per l’Italia, che ospitò nel 1998 a Roma la firma dello Statuto della Cpi. Finora procedure simili hanno investito la Mongolia per il mancato arresto di Vladimir Putin nel 2024 e il Sudafrica per aver fatto fuggire nel 2015 l’allora dittatore sudanese Omar al-Bashir.

Sarebbe comunque devastante, per l’immagine del Paese, anche se i rivolgimenti in corso in Libia portassero davvero alla consegna di Almasri alla Corte dell’Aja da parte del governo libico, come richiesto giorni fa dal procuratore della Cpi Karim Khan. Quest’ultimo, però, venerdì 16 maggio si è autosospeso per le accuse di abusi sessuali che gli ha rivolto una funzionaria. Accuse da provare ma almeno all’apparenza circostanziate, che certo non rafforzano l’ufficio che ha incriminato Benjamin Netanyahu per la mattanza di Gaza e Putin per i crimini commessi dai russi in Ucraina.

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