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Davanti agli ultimi femminicidi diventa ancora più urgente una bonifica educativa e culturale

La sensazione è che siamo di fronte ad un fenomeno pandemico, un tipo di cultura maschile sulle donne invisibile
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di Vera Cuzzocrea*

Due giovani donne sono state uccise negli scorsi giorni. Accoltellate. Sono studentesse universitarie le vittime, coetanei gli autori. In un caso, a Messina, per mano di un conoscente; nell’altro, a Roma, l’omicida è l’ex fidanzato che avrebbe anche nascosto il cadavere in una valigia gettandolo poi da una scarpata. Malgrado la rilevazione del Ministero dell’Interno evidenzi una diminuzione dei casi di femminicidio rispetto allo scorso anno (-35%), tra gennaio e marzo sono già 17 i casi registrati. E questi ultimi due sono un pugno nella pancia, per diverse ragioni.

Innanzitutto per la giovane età di vittime e aggressori, poco più che ventenni. Come se la violenza non dovesse riguardare adolescenti e giovani adulti. Eppure, i dati della giustizia minorile indicano che quasi un terzo dei reati commessi da minorenni sono contro la persona, per la maggior parte lesioni personali volontarie, minacce e violenze sessuali. E non mancano casi di omicidi, stalking e maltrattamenti contro familiari, partner ed ex partner. La violenza abita pertanto anche le aule dei tribunali per i minorenni. Malgrado sia diminuita la forbice rispetto ai reati contro il patrimonio che restano i più frequenti, in realtà la dinamica che lega questi due omicidi è la stessa: si tratta di violenza maschile contro le donne e prescinde da fattori demografici.

A colpire, forse, in questi ultimi due casi è la normalità dello scenario. Mentre camminava la prima vittima, in visita al fidanzato la seconda. Due situazioni apparentemente imprevedibili e che potrebbero caratterizzare il quotidiano delle nostre figlie o vicine di casa. Senza segnali d’allarme che siamo stati in grado di cogliere, nemmeno quando in un caso sarebbe emersa una lunga condotta persecutoria come preambolo del delitto.

La verità è che queste due ennesime brutte storie di vite interrotte, vittime deumanizzate e sopraffatte, non riconosciute nel loro diritto di essere libere, sono identiche a tutte le altre. La matrice comune è la dinamica di potere e controllo agito da un uomo contro una donna. La persona diventa un oggetto, il legame diventa possesso. I meccanismi di disimpegno morale che Bandura ha teorizzato spiegano in parte il processo che anticipa l’azione deviante. La sensazione è che siamo di fronte ad un fenomeno pandemico, un tipo di cultura maschile sulle donne invisibile, permeata a tal punto da condizionare linguaggi e percezioni e produrre comportamenti prevaricanti.

E’ attuale un disegno di legge che restituisce un’identità autonoma al reato di femminicidio che, al di là degli adeguamenti procedurali, sarà utile nel riconoscere questo fenomeno come un fatto sociale degno di interesse. Ma non basta. A livello educativo, sono necessarie progettualità sull’affettività, che insegnino a riconoscere e gestire le emozioni, a stare bene in relazione, fin dalla scuola primaria. Serve un welfare che permetta ai genitori di riappropriarsi di competenze, tempo, autorevolezza e calore nella relazione con i figli e le figlie. Serve un presidio pubblico e accessibile di psicologia di base, vicina alle persone. Serve formazione di chi veicola le informazioni quando inconsapevolmente colpevolizza le vittime (“perché non ha denunciato”?), di forze dell’ordine, magistrati e servizi territoriali. Serve una globale e sistemica bonifica culturale ed educativa. E questo riguarda noi tutti e tutte.

*vicepresidente Ordine Psicologi Lazio

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