La Cop29 di Baku è giunta al termine con risultati che hanno lasciato molti esperti e attivisti profondamente delusi. Nonostante l’urgenza sempre crescente della crisi climatica e impatti sempre più devastanti che colpiscono in particolare i Paesi più vulnerabili, la conferenza ha fallito nel produrre impegni concreti e meccanismi di attuazione adeguati per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
Questo appuntamento si presentava come un’opportunità per rafforzare la cooperazione multilaterale, ma si è concluso in una spirale di compromessi deboli e promesse poco ambiziose. Le divisioni tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo, così come l’influenza esercitata dai grandi interessi delle industrie fossili, hanno ostacolato un progresso significativo. Mentre il tempo stringe per limitare l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C, gli esiti della conferenza hanno dimostrato ancora una volta che il sistema multilaterale è in crisi e necessita di una riforma urgente.
Il fallimento del multilateralismo
L’accordo di Parigi del 2015 è stato una pietra miliare, ma il suo successo dipende dalla capacità degli Stati di cooperare e di implementare misure collettive. A Baku le negoziazioni sono state caratterizzate da un clima di sfiducia. I Paesi maggiormente sviluppati hanno faticato a garantire i finanziamenti promessi per sostenere l’adattamento e la mitigazione nei Paesi in via di sviluppo. Alcuni grandi emettitori si sono rifiutati di adottare nuovi impegni vincolanti, preferendo optare per approcci volontari che raramente producono risultati tangibili.
Se il sistema multilaterale non riesce a funzionare, l’azione climatica rischia di frammentarsi, lasciando spazio a misure unilaterali inefficaci e a un aumento delle tensioni geopolitiche. Per far sì che gli obiettivi climatici globali siano raggiunti è essenziale che gli Stati tornino a credere nella cooperazione internazionale e agiscano con responsabilità e urgenza.
Tre azioni per salvare il futuro climatico
Per rilanciare il multilateralismo e garantire giustizia climatica e sicurezza per i Paesi più poveri, sono necessarie tre azioni immediate e ambiziose:
1. Aumentare i finanziamenti climatici per l’adattamento e il “loss and damage”: gli impegni finanziari presi dai Paesi sviluppati per aiutare le nazioni più vulnerabili sono stati finora insufficienti. Il Fondo Verde per il Clima, che dovrebbe garantire 100 miliardi di dollari l’anno, non ha mai raggiunto il suo obiettivo. A Baku i Paesi in via di sviluppo hanno chiesto un nuovo fondo dedicato al “loss and damage” (perdite e danni) per affrontare gli impatti devastanti di eventi climatici estremi. È essenziale che i Paesi ricchi onorino i loro impegni finanziari, fornendo risorse aggiuntive sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti.
2. Eliminare i sussidi alle fonti fossili e incentivare la transizione energetica globale: nonostante l’urgenza di ridurre le emissioni, i sussidi pubblici alle fonti fossili continuano a rappresentare un ostacolo significativo. Durante la Cop29 non sono stati fatti reali passi avanti a causa della pressione esercitata dai Paesi produttori di petrolio e gas. Gli Stati devono impegnarsi a riformare i propri sistemi economici per rendere le tecnologie pulite accessibili e competitive a livello globale.
3. Rafforzare i meccanismi di monitoraggio e rendicontazione degli impegni climatici: uno dei maggiori limiti dell’Accordo di Parigi è l’assenza di sanzioni per i Paesi che non rispettano i propri impegni. Per garantire che gli Stati rispettino i propri obiettivi climatici, è necessario istituire un sistema di monitoraggio rigoroso, indipendente e accessibile. La trasparenza è essenziale per costruire fiducia tra le parti e per mobilitare ulteriori azioni da parte del settore privato e della società civile.
Un elefante nella stanza dal nome Eni
L’Italia, pur avendo ricevuto miliardi di euro dal Pnrr per la transizione ecologica, si trova in una situazione critica. I dati indicano che il Paese non sarà in grado di rispettare i target di decarbonizzazione previsti per il 2030 e il 2050. Un elemento chiave di questo problema è il ruolo di Eni che, nonostante dichiarazioni pubbliche di impegno verso la sostenibilità, continua a investire massicciamente nelle energie fossili. L’Italia deve separare i suoi interessi nazionali da quelli di Eni, riconoscendo che una vera transizione ecologica non può essere ostacolata da logiche di profitto a breve termine. Per accelerare la transizione, l’Italia dovrebbe:
– Investire massicciamente nelle infrastrutture per le rinnovabili.
– Ridisegnare il sistema fiscale per favorire la decarbonizzazione, con un’imposta progressiva sulle emissioni di CO2 e un sistema premiante per l’efficienza energetica.
– Rafforzare la ricerca e l’innovazione: le risorse del Pnrr devono essere utilizzate per sviluppare tecnologie avanzate, garantendo al contempo il trasferimento di queste conoscenze ai Paesi in via di sviluppo.
L’Italia, per il proprio posizionamento geopolitico in qualità di membro chiave dell’Ue e del G8, ma anche per il suo posizionamento geografico al centro di uno degli hotspot più evidenti del pianeta, ha l’obbligo di dimostrare leadership. Solo un’azione coraggiosa e coordinata potrà garantire un futuro ecologicamente ed economicamente sostenibile per tutti.
In questo contesto, l’Unione Europea deve assumere un ruolo guida nel sostenere i Paesi più poveri. L’Europa, responsabile di una parte significativa delle emissioni storiche, ha un dovere morale e politico nel promuovere la giustizia climatica. La Cop29 ha dimostrato che il tempo per l’azione è ieri. Se il sistema multilaterale fallisce, con la polarizzazione del panorama internazionale, deve essere la solidarietà europea a tracciare la strada. Storicamente lo dobbiamo all’intero pianeta.
Scritto in collaborazione con Sara Palliccia