Questa volta non c’è Donald Trump tra i milionari che finanziano la campagna di Kamala Harris. Tra il 2011 e il 2013 il tycoon, ancora lontano dalle luci della politica, staccò due assegni, uno di 5.000 e l’altro di 1.000 dollari, per sostenere la rielezione di Harris ad attorney general. Erano i tempi in cui il futuro presidente temeva una class action contro la sua Trump University. Finanziare la probabile attorney general della California, colei che avrebbe avuto in carico eventuali azioni legali, dovette sembrare a Trump cosa saggia. Non c’è ovviamente lui tra i grandi donatori di Harris nel 2024, ma anche quest’anno il fiume di dollari che si muove dalla società alla politica statunitense è impressionante e si prepara a battere ogni record. In attesa del loro primo dibattito televisivo in programma martedì 10 settembre, le forze si misurano sulle rispettive campagne elettorali. Si calcola che i due rivali spenderanno più di 1 miliardo di dollari, sopratutto negli Stati più contesi dove si decideranno le elezioni.
Piccoli e grandi finanziatori, semplici cittadini e miliardari, stanno riversando milioni di dollari nelle casse dei due candidati. La sfida dei soldi, per il momento, la sta vincendo Harris. I Democratici annunciano che, da quando Joe Biden ha abbandonato la corsa a favore della sua vice, nelle casse della campagna sono finiti 540 milioni di dollari. A fine luglio, Harris aveva a disposizione sul suo conto elettorale 219,7 milioni di dollari, e venerdì scoro i suoi hanno annunciato che nel mese di agosto sono stati raccolti 361 milioni di dollari. Più limitate le possibilità finanziarie di Trump, la cui campagna ha raccolto 47,5 milioni in luglio e 130 milioni ad agosto. Secondo i rispettivi staff, nelle casse del Tycoon ci sono attualmente 295 milioni, mentre Harris dichiara una liquidità che supera i 400. Si tratta per l’appunto di soldi che vengono da donazioni piccole e grandi. Quelle piccole sono linfa vitale, mostrano che il candidato gode di un ampio favore popolare. Per settimane, Biden si è rifiutato di fare il passo indietro che il suo partito gli chiedeva, citando le decine di milioni raccolti da attivisti, militanti, semplici elettori. Biden è però stato costretto al ritiro quando i grandi donatori democratici hanno cominciato a chiudergli i rubinetti dei finanziamenti. Se i piccoli donatori decidono di dare sostegno finanziario prevalentemente per passione politica, i grandi donatori lo fanno per passione politica e per interesse personale. Un certo candidato, una certa candidata, potrebbe rivelarsi strumentale al perseguimento di determinati interessi. Ecco chi appare in cima alla lista dei finanziatori dei due maggiori candidati per le presidenziali 2024.
DONALD TRUMP – Al momento, il donatore più generoso del repubblicano è Timothy Mellon, erede della fortuna, tra banche e petrolio, dei Mellon della West Pennsylvania. Poco incline alla ribalta mediatica, Tim Mellon ha comunque versato circa 125 milioni di dollari nella campagna presidenziale di Trump, sostenendo in particolare MAGA Inc, il gruppo di azione politica. Dietro di lui, in termini di generosità elettorale, c’è Linda McMahon, moglie di Vince McMahon (ora un po’ defilato a causa di accuse di molestie sessuali), che ha donato a Trump 16 milioni. I McMahon hanno fatto i soldi attraverso il World Wrestling Entertainment, ma Linda ricopre anche un ruolo politico significativo nella galassia del MAGA. Guida il gruppo no profit “America First Policy Institute” ed è co-chair del Trump Transition Team, incaricato di gestire la transizione dopo l’eventuale vittoria del candidato repubblicano.
Ben posizionata tra i donatori di Trump c’è Diane Hendricks, ex coniglietta Playboy, oggi a capo di un’azienda di forniture per le costruzioni, ABC Supply. Forbes l’ha inserita nella lista delle self-made women più ricche d’America. Hendricks ha firmato assegni per oltre 6 milioni di dollari a favore di diversi gruppi trumpiani. Tra gli amici più antichi e fidati di Trump c’è poi Miriam Adelson, vedova ed erede di Sheldon, magnate dei casinò di Las Vegas. Nata in Israele, attenta soprattutto ai rapporti tra Washington e Gerusalemme, Miriam e il marito hanno donato qualcosa come 220 milioni di dollari alle cause conservatrici nel 2020. Dopo la morte di Sheldon nel 2021, Miriam ha continuato ad appoggiare i repubblicani, entrando però in conflitto con l’ex presidente che l’ha accusata di sostenere i “Republicans in name only”, i falsi repubblicani. I due, Miriam e Donald, hanno fatto comunque pace in una saletta riservata alla Convention repubblicana di Milwaukee, e ora la signora prevede di donare 90 milioni di dollari a Trump per la campagna 2024. Ne ha già sborsati 5,8.
Tra i più generosi donatori del repubblicano c’è poi Kelcy Warren, CEO di Energy Transfer Partners, beneficiato da Trump ai tempi della Dakota Access Pipeline, che sinora ha donato 5,8 milioni. A favore di Trump c’è un altro magnate dell’industria petrolifera, Timothy Dunn, alla guida di Crown Quest (ha donato 5 milioni). E ci sono i coniugi Uihlein, Elizabeth e Richard, magnati di Uline, azienda di spedizioni, conosciuti per la liberalità della loro fede conservatrice. Ad ogni ciclo elettorale, spendono centinaia di milioni di dollari. Nel 2024 hanno già offerto una bella cifra per le cause repubblicane: 75 milioni di dollari. Cinque sono andati a Trump.
Da citare ancora, tra i beneamati dell’ex presidente, Phil Ruffin, che con il tycoon possiede il Trump International Hotel di Las Vegas. Si è sposato a Mar-a-Lago, con il socio in affari come testimone. Sinora ha pagato 3,3 milioni alla sua campagna. C’è poi ovviamente Elon Musk. Il proprietario di X e CEO di Tesla è diventato uno dei nomi più influenti all’interno del MAGA (i suoi esordi politici sono però stati da democratico). Trump lo ascolta con attenzione. Grazie a Musk, il candidato repubblicano ha ammorbidito le sue prese di posizione contro le auto elettriche. E a Musk va attribuita in gran parte la scelta di JD Vance come vice. Musk è tra i fondatori di America PAC, un gruppo che si propone di versare circa 180 milioni nella campagna del repubblicano. È però ancora incerto quanto Musk effettivamente darà. In un primo tempo, sembrava si fosse impegnato a donare 45 milioni al mese. In seguito, l’imprenditore ha negato di aver mai fatto quella promessa, spiegando di voler offrire “donazioni più limitate”.
KAMALA HARRIS – Per quanto riguarda i finanziamenti a favore della candidata democratica, vanno fatte due premesse. La prima. Una parte importante di quei finanziamenti arriva da piccole donazioni. Dei 540 milioni incassati dalla sua discesa in campo, il 42% circa viene per l’appunto da piccoli donatori (dati di Open Secret, gruppo no-profit di Washington che monitora il flusso di soldi nella politica Usa). La seconda. Harris sta recuperando quel mondo dell’high tech e dell’istruzione superiore che sembrava aver in parte abbandonato i Democratici quando il candidato era Biden. Sempre Open Secret spiega che un forte afflusso di denaro elettorale viene a Harris dai dipendenti Google, Alphabet, Apple, Meta, IBM, oltre che da grandi istituzioni universitarie come Stanford, Columbia, Harvard e da strutture della pubblica amministrazione: tra queste il Dipartimento di Stato, quello alla Sanità e la City of New York. Ci sono poi, anche per Harris, i grandi nomi. Per esempio, quello di Reid Hoffman, co-fondatore di Linkedin, che oltre a staccare propri assegni per la campagna democratica si è rivelato in questi mesi importante soprattutto nel risvegliare la passione politica democratica della Silicon Valley. Dalla Silicon Valley arriva anche Dustin Moskovitz, co-fondatore di Facebook, che di recente ha lanciato l’allarme per la deriva conservatrice del mondo dell’hi tech, da Musk a Peter Thiel. Nelle ultime settimane di campagna elettorale, Moskovitz prevede di donare diversi milioni a “Future Forward”, gruppo che sostiene il programma economico di Kamala Harris a favore della middle-class.
Tra i nomi certi, del firmamento finanziario democratico, c’è poi ovviamente quello di Jeffrey Katzenberg, ex chairman di Walt Disney, oggi co-chair della campagna Harris, l’uomo capace di mobilitare la passione politica e soprattutto i soldi di Hollywood. Un ruolo nella campagna, soprattutto nelle ultime settimane, lo avrà sicuramente Mike Bloomberg, ex sindaco di New York, ex repubblicano, grande nemico di Trump. Bloomberg non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Biden. Harris lo sta coltivando, in vista soprattutto dello slancio finanziario finale della campagna. Nomi ultra noti del mondo progressista sono poi i due Soros, George e il figlio Alex, compagno di Huma Abedin, l’ex capo staff di Hillary Clinton. Se George, tradizionalmente, predilige interventi finanziari in campo internazionale e a favore di cause genericamente progressiste, Alex preferisce invece un più diretto intervento nella politica democratica.
Parlando di cause progressiste, un nome che quest’anno sicuramente mancherà è quello di Mark Zuckerberg. Insieme alla moglie Priscilla Chan, il fondatore di Facebook aveva nel 2020 donato 420 milioni di dollari al “Center for Election Innovation & Research”. L’intento era quello di consolidare le infrastrutture elettorali. Promosso da Trump a “grande nemico” – in particolare per aver cancellato da Facebook alcuni contenuti anti-Biden nel 2020 – Zuckerberg quest’anno ha scelto una linea più prudente. In una lettera alla Commissione Giustizia della Camera, che pare un chiaro segno per ingraziarsi i Repubblicani nel caso dovessero tornare alla Casa Bianca, l’imprenditore ha ammesso che fu un errore sopprimere quei contenuti e ha assicurato che non intende finanziare infrastrutture elettorali nel 2024.