A un anno dall’omicidio della psichiatra pisana Barbara Capovani per mano di un suo ex paziente, 503 psichiatri e professionisti della salute mentale sottoscrivono le riflessioni di un giovane psichiatra, Stefano Naim, “Basaglia si rivolta nella tomba”, e le trasformano in un appassionato appello a Mattarella.

Scrivono: “In queste settimane si è celebrato il centenario di Franco Basaglia, psichiatra e intellettuale, ispiratore di quella legge che, mezzo secolo fa, ha cambiato per sempre nel nostro Paese l’approccio alla malattia mentale, portandoci all’avanguardia del mondo. Ma cosa penserebbe Basaglia della situazione attuale dell’assistenza psichiatrica italiana? I servizi di salute mentale hanno un’importanza cruciale […]. L’Italia non può permettersi di assistere impotente alla loro regressione, processo in atto da anni e vicino a un punto di non ritorno. E noi, operatori impegnati in prima linea, non possiamo permetterci di tacere”.

Il “ritiro” dello Stato – trent’anni di tagli, privatizzazioni e disimpegno del pubblico prima dall’economia, poi dai servizi, la sanità in testa – genera una società più feroce, diseguale, nevrotica. Il disagio colpisce anche fasce di popolazione non necessariamente “povere”, coinvolge anche i professionisti come i medici stessi. Specie quelli che non hanno sposato la logica privatistica e scelgono di restare in un servizio pubblico sempre più sotto assedio e in difficoltà nel fronteggiare le richieste degli utenti.

Nel caso della psichiatria la situazione diventa ancora più drammatica, perché alla sofferenza da “ritiro dello Stato” si aggiungono gli effetti di interventi legislativi e di sentenze conseguenti. Primo effetto: la fuga dei medici psichiatri dalla sanità pubblica. Un esempio: “[…] anche fuori dell’ipotesi di ricovero coatto lo psichiatra è titolare di una posizione di garanzia, sullo stesso gravando doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive” (Cassazione Penale IV, n. 48292/08).

In pratica il matto torna a essere rappresentato come un pericolo per la società, un soggetto che deve essere isolato e contenuto per impedirgli di nuocere ai “normali”. Lo psichiatra che lo ha in carico può essere chiamato in causa davanti alla legge quando il paziente commetta qualche reato connesso con la sua condizione.

E’ l’applicazione allo specifico dell’art. 40 del Codice Penale: “(Rapporto di causalità) […]. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Così il paziente è equiparato ad una fonte di pericolo, lo psichiatra ad un garante che dovrebbe neutralizzarne gli effetti lesivi, proteggendolo da comportamenti pregiudizievoli per se stesso.

Qualche storia: uno psichiatra dispone il trasferimento in autoambulanza in una struttura più idonea di un paziente reduce da una crisi di schizofrenia. Durante il trasporto il malato aggredisce l’autista e il mezzo finisce fuori strada. Medico condannato per le lesioni dell’autista perché, essendo prevedibile un’ulteriore crisi del paziente, non aveva predisposto misure adeguate (C.P. IV 6380/17). Lo psichiatra che prescrive una terapia farmacologica a un paziente che non la segue, può essere chiamato in causa come corresponsabile dei suoi atti criminosi. E così via.

Primario e medici di un ospedale pubblico condannati per omicidio colposo: un paziente che si era ricoverato volontariamente con divieto di uscita ha detto all’infermiera che sarebbe andato a prendere un caffè al distributore del piano superiore. Lì si è suicidato gettandosi da una finestra (C.p. IV 48292/08). Condannati per concorso colposo in omicidio dei medici che avevano permesso il rilascio del porto d’armi ad un paziente affetto da gravi problemi di ordine psichico. Con una rivoltella aveva colpito quattro passanti, ucciso la propria convivente e una condomina per poi suicidarsi.

Uno psichiatra può essere accusato di abbandono, anche quando il malato scappa dalla struttura in cui si trovava e commette reati e/o suicidio (C.P. IV 35814/15), perfino quando si tratta di struttura aperta che deve contemperare il rispetto della libertà individuale con la protezione della persona. Può anche essere condannato per minacce quando interviene in una condizione di emergenza e mette il paziente di fronte all’alternativa fra Tso e assunzione volontaria di calmanti.

Le storie giudiziarie sono tantissime, quelle cliniche ancora di più, ma il disagio cresce. Così tanto da provocare l’abbandono di molti psichiatri. “Troppe aggressioni fisiche e denunce, mi dimetto. Così non è possibile lavorare. Il noto medico lascia la professione. Nel giro di un anno solo a Genova tre avvisi di garanzia a brave colleghe”, così il noto psichiatra genovese Ciliberti nell’annunciare l’abbandono del servizio pubblico. Meno di un mese fa: “Dottoressa dell’Asp di Messina aggredita da un paziente: ha perso due denti”. Basta scorrere le segnalazioni e gli interventi su Psichiatria Reale, sempre ben documentati da uno degli animatori, lo specialista messinese Antonio Milici, per tastare il malessere e la rabbia che circola nel mondo della psichiatria pubblica e reclama attenzione e leggi più in linea con il resto d’Europa.

Così torno al grido di dolore di Naim e dei suoi colleghi: “Basaglia parlerebbe […] di un nuovo manicomio, fatto di disinvestimento e disinteresse. Spiegherebbe alla gente perché se va in Pronto Soccorso, o in un Centro di Salute Mentale, trova un giovane neanche specializzato […] preso una tantum, a “gettone” […]. Spiegherebbe che questo sistema produce malattia. E fa carne da macello di chi si oppone al suo funzionamento malato. […] Chissà cosa farebbe, lui, per contrastare questa desertificazione. Forse denuncerebbe. Direbbe “mi non firmo”. Qualcosa del genere. Io, che in confronto a lui non sono nessuno ma ho capito che o mi ammalo o rinuncio, intanto denuncio. Forse gli farebbe piacere. Lo spero”.

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