Per la prima volta in cinquant’anni di pubblicazioni, il rapporto annuale sulle democrazie del V-Dem Institute – un noto ente accademico svedese che studia le forme di governo nel mondo – ha declassato Israele escludendolo dalla categoria delle “democrazie liberali“, la più avanzata, di cui fanno parte tutti i Paesi occidentali ma anche il Giappone, l’Australia o Taiwan. Lo Stato ebraico è invece stato retrocesso tra le “democrazie elettorali“, il livello subito inferiore, insieme – tra gli altri – a Cipro, Grecia, Moldavia, Giamaica, Montenegro e Namibia. In base ai criteri individuati dal rapporto, perché una forma di governo possa definirsi “democrazia liberale” non bastano elezioni trasparenti e libertà di parola e di associazione, ma serve che il potere esecutivo sia sotto il controllo effettivo del potere giudiziario.

Le ragioni del downgrade, quindi, non riguardano l’offensiva nella Striscia di Gaza, ma questioni interne: la democrazia israeliana “ha avuto un declino sostanziale negli indicatori che misurano la trasparenza e la credibilità della legge, nonché gli attacchi del governo alla magistratura”, si legge nel report. In particolare, il riferimento è alla contestatissima riforma della giustizia approvata nel 2023 dalla Knesset, il parlamento di Israele, su input del governo di Benjamin Netanyahu: un provvedimento che “toglie alla Corte Suprema il potere di annullare le leggi, neutralizzando così i controlli sul potere esecutivo”. Tra gli indicatori in sostanziale declino si citano anche quelli relativi alla tortura, un elemento che potrebbe (ma il report non lo specifica) riferirsi al trattamento dei prigionieri palestinesi accusati di terrorismo.

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