Hong Kong sempre più provincia di Pechino dopo l’approvazione lampo da parte del Parlamento dell’ex colonia britannica di una legge sulla sicurezza nazionale che concede al governo maggiori poteri per reprimere il dissenso e inasprisce le pene per reati come il tradimento, la sedizione, la condivisione di segreti di Stato e la “collusione con forze straniere”. Un recepimento interno della già vigente legge sulla sicurezza nazionale imposta dalla Cina nel 2020 a seguito delle proteste pro-democrazia dell’anno precedente che secondo diversi analisti segna la resa della società civile di Hong Kong all’influenza cinese sul territorio.

LA LEGGE – 89 deputati, 89 voti favorevoli. Martedì il Consiglio legislativo di Hong Kong ha approvato la “proposta di legge per la salvaguardia della sicurezza nazionale” durante una seduta speciale arrivata solo 11 giorni dopo la presentazione della bozza completa. La norma, che entrerà in vigore a partire da sabato 23, elenca 39 reati e minaccia pene severe per azioni che le autorità definiscono un rischio per la sicurezza nazionale. Per il tradimento e l’insurrezione è previsto l’ergastolo, per la sedizione invece la pena aumenta da due a sette anni di carcere e il reato diventa perseguibile anche senza intenti violenti. Anche per reati considerati minori come il possesso di “pubblicazioni sediziose” si può arrivare fino a dieci anni di carcere.

Maggiori poteri invece alle forze dell’ordine, le stesse che avevano represso a colpi di lacrimogeni le proteste pro-democrazia del 2014 (il cosiddetto movimento degli ombrelli) e del 2019, che potranno tenere in detenzione preventiva fino a 16 giorni, contro le 48 ore precedenti, senza accuse formale i sospettati di questi reati. Problematica anche l’estensione della definizione di “segreti di Stato”. In base alla nuova legge, informazioni sullo “sviluppo economico, tecnologico o scientifico” della città rientrano in questa categoria. Un aspetto che secondo diversi osservatori avrà riflessi negativi sia sulla libertà di informazione, già pesantemente messa a rischio dopo la chiusura dell’ultimo quotidiano indipendente Apple Daily e la detenzione del suo fondatore Jimmy Lai, sia sull’attrattività di Hong Kong come hub economico.

L’INFLUENZA CINESE – Per il presidente del Consiglio di legislatura, il filocinese Andrew Leung, si tratta di una “missione storica” che finalmente “garantirà pace e sicurezza” nella città. Era infatti dal 2003 che si provava ad approvare la legge ma le proteste in piazza lo avevano sempre evitato. A Hong Kong la norma è conosciuta come “pacchetto 23”, dall’articolo 23 della Costituzione interna della città, la cosiddetta Basic Law in vigore dal 1997 quando la colonia britannica è tornata alla Cina, che prevedeva che Hong Kong dovesse avere una sua legge sulla sicurezza nazionale. Negli ultimi cinque anni la morsa di Pechino si è però fatta più stringente. Nel 2020, con l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale che ha represso ogni forma di dissenso e nel 2021 con la norma sulla fedeltà patriottica che prevede che i candidati della politica di Hong Kong siano approvati dal Partito comunista cinese. Nelle ultime settimane, poi, il vicepremier cinese Ding Xuexiang aveva invitato l’amministrazione di Hong Kong ad approvare “in fretta” la normativa.

LE REAZIONI INTERNAZIONALI – Dura la risposta della comunità internazionale. Secondo le Nazioni Unite la nuova legge criminalizza la libertà di espressione e aumenta il rischio di violazione dei diritti umani nel territorio. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, l’ha definita un “passo indietro” ritenendola “incompatibile in molte delle sue disposizioni con la legge internazionale per la difesa dei diritti umani”. Da Londra invece il Segretario di Stato per gli Affari Esteri, David Cameron, ha criticato la norma per il suo linguaggio ampio e di difficile interpretazione, sottolineando che “renderà difficile fare affari con Hong Kong”. Cameron ha poi accusato la normativa di “alimentare la cultura di autocensura che domina il panorama socio-politico di Hong Kong” e di “erodere la libertà di espressione, di associazione e di informazione”. La legge ha infatti valenza extraterritoriale e si applica dunque ai cittadini di Hong Kong che dal 2019 sono progressivamente fuggiti verso il Regno Unito per timore di repressioni. Pronta la reazione di Pechino che ha definito “calunnie” le critiche internazionali alla nuova norma e ha invitato per bocca del portavoce del ministero degli Esteri, Lin Jian, a “non intromettersi negli affari di Hong Kong”.

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