di Federico Avanzi *

Il 12 ottobre 2023, riscontrando la richiesta della Presidente del Consiglio dell’11 agosto, a sua volta sollecitata dalla pressione delle opposizioni che si erano compattate dietro l’unitaria proposta di legge tesa a introdurre un “trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL, non […] inferiore a 9 euro lordi” (art. 2, c. 1 p.d.l. n. 1275 del 04/07/2023), il Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) ha reso noto gli esiti delle proprie analisi in tema di salario minimo.

Nel documento, approvato dall’assemblea a maggioranza (con voti contrari di CGIL, UIL, USB e di alcuni tra gli esperti nominati dal Colle), muovendo dal ‘mantra’ della “estrema complessità del tema”, si evidenzia un sostanziale sfavore verso un intervento legislativo determinante un valore minimo, uniforme e non derogabile della retribuzione, da applicare a tutti i lavoratori dipendenti; tantoché, già in serata, la stessa Giorgia Meloni metteva in archivio l’argomento dichiarando: “non è lo strumento adatto a contrastare il lavoro povero e le basse retribuzioni”.

Questo perché, poggiando anche sulle prescrizioni contenute all’interno della direttiva 2022/2041 inerente ai salari minimi adeguati nell’Ue, la soluzione al problema dei “bassi salari” sarebbe da ricercare all’interno della “grande tradizione” (così il Presidente del Cnel Renato Brunetta) della contrattazione collettiva nazionale, la quale, salvaguardata nella sua autonomia e libertà, andrebbe semmai maggiormente incoraggiata e promossa dal legislatore.

Per sostenere ciò, decisivi appaiono alcuni passaggi del parere licenziato dal Cnel, a cominciare dal fatto che, in Italia, “il tasso di copertura della contrattazione collettiva […] si avvicina al 100 per cento” (p. 14), che “la struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una tariffa oraria” (p. 20) e che seguendo i parametri suggeriti dalla direttiva Ue, i quali portano a valorizzare il 50% del salario medio e il 60% di quello mediano, “nel complesso, […] il sistema di contrattazione collettiva di livello nazionale di categoria supera più o meno ampiamente dette soglie
retributive orarie” (p. 20-21).

Tuttavia, in disparte dall’osservare come, in realtà, ancora oggi, tutti i contratti collettivi fondano la definizione del trattamento economico – quanto la misurazione della prestazione – su definizioni convenzionali “orarie” (dai cosiddetti “minimi tabellari”, agli straordinari, ai permessi etc.) e che i dati Istat utilizzati per verificare la rispondenza delle soglie risalgono al 2019, la più grande obiezione da muovere a quanto sopra parrebbe trovarsi proprio all’interno del medesimo documento, nel quale, comunque, si riconosce la presenza di “non trascurabili eccezioni” come il “lavoro agricolo[,] lavoro domestico, multiservizi e lavoro di attesa (servizi fiduciari)” (p. 21).

Eccezioni che, tuttavia, sono state la vera miccia del ritorno nella discussione politica del tema “salario minimo” (v. la contesa giurisprudenziale sulla paga oraria, lorda, di € 4,60, prevista dal CCNL Servizi Fiduciari e vigilanza privata; per tutti Trib. Catania 21/07/2023) e che, ciononostante, il CNEL suggerisce di risolvere mediante «misure ad hoc di contrasto al lavoro povero, di sostegno al reddito dei lavoratori e delle famiglie, di contrasto al sommerso, di gestione delle gare pubbliche al massimo ribasso» (Quadro riepilogativo, p. 3, (4)); cioè, come a dire che, laddove veramente necessario, da un lato, la contrattazione collettiva non sarebbe più lo strumento maggiormente idoneo, dall’altro, che lo Stato dovrebbe, qui sì, intervenire, ma, comunque, giammai correggendo le riconosciute storture di quest’ultima.

A questo punto, in una prospettiva di tutela di queste – non meno di – centinaia di migliaia di lavoratori (v. dati Cnel su applicazione dei Ccnl), non c’è da stupirsi ed è da ritenersi tutt’altro che casuale il recentissimo quanto irruente intervento della Corte di Cassazione che, pur rammentando la presunzione di “giusta retribuzione” (art. 36 Cost.) riconosciuta al trattamento economico definito dalle parti sociali, ha evidenziato, altresì, come il giudice non possa sottrarsi alla verifica di conformità al precetto costituzionale, il quale, accogliendo “una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso”, impone una valutazione giudiziale “‘nonostante’ la contrattazione, per individuare nel caso concreto, un minimo invalicabile”, che tenga pure in considerazione (v. passaggio del considerando n. 28 della direttiva Ue, trascurato dal Cnel), “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, […] anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”; questo soprattutto in Italia dove, continua la Cassazione, vi è “carenza a tutt’oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora […] il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale all’infuori di una controversia processuale” (Cfr. Cass. n. 27711/2023, 28320/2023 e 28323/2023).

Presa di posizione che, se, di primo acchito, potrebbe addirittura creare allarmismo e favorire denunce – talvolta strumentali – di illegittimo interventismo e indebite invasioni di campo (e di “potere”) da parte della magistratura, in verità e nella sostanza, sembra muoversi nel pieno solco del dettato della Carta dove, in più occasioni, per mano della Corte Costituzionale, oltre ad appurare l’inesistenza di una riserva normativa o contrattuale in favore dei sindacati per il regolamento dei rapporti di lavoro (C. Cost. 106/1962), è stato espressamente sancito che il legislatore ben può adeguare la retribuzione alle variazioni nel costo della vita (C. Cost. 43/1980) e che, soprattutto, in talune evenienze, sono gli stessi principi e valori costituzionali a imporre a quest’ultimo di emanare norme che, direttamente o mediatamente, incidono nel campo dei rapporti di lavoro (C. Cost. 106/1962).

Anche perché, a ben vedere, potrebbe anche dirsi – forse arditamente – che tra contrattazione collettiva e art. 36 della Costituzione sussiste, ontologicamente, una non perfetta conciliabilità di fondo. Di fatti, la prima rappresenta, legittimamente, la miglior – nei casi più virtuosi – mediazione fra contrapposti interessi di un numero potenzialmente infinito di aziende e lavoratori; la seconda, inequivocabilmente, menziona e rivolge la propria azione di tutela a un unico soggetto e alla sua, specifica e circoscritta, “comunità” familiare: il lavoratore subordinato.

*Consulente del Lavoro e titolare dello Studio Associato Toscani-Avanzi, collabora attivamente con gli studi legali per la gestione e la risoluzione, stragiudiziale e giudiziale, delle controversie in materia di lavoro

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