di Sara Gandini e Paolo Bartolini

Uno degli insegnamenti che potremmo trarre dalla gestione incerta e dannosa della pandemia/sindemia Covid-19 è quello che inerisce i rapporti tra scienziati, potere e mass media. Non basta ricordare che la scienza è una grande avventura basata sulla ricerca, e che la sua autorità non riguarda affatto una generica e superstiziosa credenza nel motto “Lo dice la Scienza!”. Il tragitto delle scienze è affidabile se i dati prodotti al crocevia tra intuizione, rigore procedurale e riproducibilità degli esperimenti, possono essere discussi, capitalizzati e confrontati con una realtà complessa che non si riduce alla razionalità calcolante e strumentale.

I dati, insomma, vanno letti, compresi e messi in tensione con la sfera politica-culturale, là dove i decisori sono chiamati a prendersi la loro responsabilità adottando provvedimenti giustificabili e non criminalizzando il dissenso. L’errore è stato far credere che l’operare scientifico potesse contare su un purismo metodologico intoccato dagli interessi economici dei principali attori pubblici e soprattutto privati. La realtà è ben diversa: non esiste scienza moderna e contemporanea senza un continuo e indissolubile intreccio di aspetti specialistici mescolati con fattori economici, finanziari, educativi, ecologici, politici e così via. Allora la questione da porre sul tappeto non è solo quella – pur importantissima – degli affari opachi che legano alcuni medici a determinate case farmaceutiche, o i ricercatori alle industrie che commissionano l’innovazione tecnologica. Si tratta di riportare la figura dello scienziato/a, ultra-specializzata e spesso in difficoltà a rendere il suo lavoro comprensibile a tutti, dentro la matrice socioculturale e storica che ne supporta il lavoro. Non vi è nulla di “neutro” nelle scoperte scientifiche e tecnologiche, poiché esse rispecchiano le condizioni materiali e simboliche che inseriscono ogni ricerca nella cornice di un progetto di civiltà condiviso.

La scienza procede per approssimazioni successive partendo da ipotesi che devono essere falsificate per cercare di spiegare, passo dopo passo, in modo sempre più efficace i fenomeni allo studio, ma le ipotesi e le strade che si individuano per questo percorso sono intrinsecamente legate ai presupposti del modo di pensare e concepire il mondo degli scienziati che le promuovono e che appartengono ad una certa epoca storica e ad una certa cultura. L’epistemologia femminista in particolare ha mostrato che la scienza non può essere neutrale, oggettiva e dotata di una razionalità intrinseca, perché è impossibile cancellare il soggetto conoscente, il suo corpo e le sue emozioni dalla prassi che lo vede coinvolto/a. Da un lato pensatrici come Evelyn Fox Keller hanno spiegato l’influenza sul sapere scientifico dell’androcentrismo, dall’altro c’è un movimento di pensiero interessante che mette al lavoro la differenza sessuale, con l’ipotesi che partire dalla consapevolezza di essere un corpo sessuato non sia di ostacolo alla conoscenza, ma anzi una risorsa.

Purtroppo avere a che fare con questa complessità non è funzionale per chi ha bisogno di verità incontrovertibili che sollevino i decisori istituzionali dal diritto/dovere di scegliere per il bene comune.

Colette Soler, psicoanalista lacaniana, in Scritto sotto Covid, che fare nell’ipnosi di massa, spiega che siamo in un’epoca in cui prevale acriticamente la narrazione secondo cui il cervello, i geni e gli ormoni controllerebbero, quasi in modo deterministico, le nostre emozioni, il nostro comportamento e persino i sintomi. Non abbiamo più un’anima, abbiamo genomi, neuroni, ormoni, ecc. Tutto questo, ovviamente, trascura le scoperte dell’epigenetica e il dibattito più avanzato sulla conoscenza umana che fiorisce all’incrocio tra biologia, linguaggio e società.

In fondo certe visioni riduzionistiche rimuovono i soggetti e tagliano la dimensione politica: nella narrazione ufficiale della pandemia/sindemia a determinare le nostre vite non erano scelte istituzionali ben precise, ma il virus come “nemico da sconfiggere”. Da qui nasce l’epoca delle angosce che invocano un nuovo igienismo per placare la paura e orientare le nostre vite, scrive Soler.

E così si ricomincia a parlare di mascherine a scuola, come se non sapessimo che il volto è lo specchio dell’anima e che i bambini in crescita non possono fare a meno di una comunicazione interpersonale completa. Come se non sapessimo che persino la revisione Cochrane (il massimo riferimento scientifico) ha concluso che non ci sono evidenze scientifiche solide che dimostrino una riduzione significativa della diffusione dei virus respiratori con l’impiego delle mascherine chirurgiche, mentre ci sono per il lavaggio delle mani ad esempio (ovviamente ci riferiamo alle mascherine di popolazione, imposte persino ai seienni a scuola, ben altra cosa è l’uso negli ospedali o a contatto con fragili e malati).

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