“Agire sulla situazione salariale è dirimente per il futuro del Paese”. E “sostenere che è inevitabile mantenere gli attuali livelli salariali per garantire la sopravvivenza delle imprese, senza chiedersi se sia accettabile avere interi comparti basati interamente sul semi-sfruttamento, forse non è la strategia più opportuna per un Paese solidaristico“. Non sono tesi dei sindacati di base o delle opposizioni, ma considerazioni del rapporto Global attractiveness index di The European house Ambrosetti. Per il think tank che organizza il Forum di Cernobbio, durante il quale a sorpresa è emerso che la maggior parte degli imprenditori presenti era favorevole al salario minimo, “un intervento urgente sui salari” è la prima azione da mettere in campo per migliorare l’attrattività e la crescita del Paese. Perché si tradurrebbe in maggiori consumi, dunque più pil e più gettito fiscale. Il tema di un aumento generalizzato dei salari era stato anticipato proprio in apertura dell’ultimo forum di Cernobbio, venerdì scorso, dall’amministratore delegato di The European House-Ambrosetti Valerio De Molli. Intervistato da ilfattoquotidiano.it, De Molli è stato molto diretto sull’argomento: “Penso che le imprese italiane in generale paghino troppo poco i collaboratori, lo dicono i dati Ocse. Iniziamo noi imprenditori a fare il nostro adeguando i compensi a delle soglie giuste dopodiché gli altri ci seguiranno. Mi rendo conto di dire una cosa a rischio di grande critica e impopolarità in questo contesto fatto di imprese, perché significa far crescere la struttura dei costi. Però è nell’interesse degli stessi imprenditori fare in modo che ci sia più denaro in tasca delle famiglie, più potenzialità di spesa”.

Secondo l’analisi di Ambrosetti, a cui ha lavorato anche un comitato scientifico in cui siedono tra gli altri l’ex Bce Lorenzo Bini Smaghi, l’ex ministro Enrico Giovannini e l’ex Istat Roberto Monducci, servono due interventi coordinati. Il primo per le persone che sono in povertà nonostante lavorino – “l’11,8% del totale dei lavoratori in Italia” -: il problema va affrontato con “adeguati strumenti legislativi” come l’estensione dei contratti nazionali e il salario minimo, appunto, tema che “non dev’essere affrontato ideologicamente”. Serve una discussione sui contenuti, che tenga conto del fatto che nonostante la contrattazione collettiva abbia ampia copertura i ccnl siglati dai sindacati confederali prevedono in alcuni casi soglie minime molto basse. E vengono rinnovati con grande ritardo, cosa che “nell’attuale contesto inflattivo danneggia significativamente lavoratrici e lavoratori”. Il secondo riguarda i salari mediani, indicatore che esprime meglio della media il livello la situazione retributiva di un Paese. Su questo fronte si può agire con la “rimodulazione delle aliquote Irpef“, la solita riduzione del cuneo ma anche lo “spostamento del carico fiscale dai redditi da lavoro ai redditi da capitale“, ovvero colpire di più le rendite finanziarie o i patrimoni. Ricetta di solito non molto gradita all’universo imprenditoriale.

Per arrivare a queste conclusioni lo studio mette in fila dati Ocse, Istat ed Eurostat che mostrano la distanza tra salari italiani ed europei e il progressivo allargamento del precariato e del part time involontario. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha aggiornato di recente le rilevazioni sui salari medi nei Paesi Ue: se nel 2021, anno di forte ripresa post Covid, si era registrato un marginale recupero che aveva portato quelli italiani appena sopra il livello di 30 anni prima, nel 2022 la tendenza si è di nuovo invertita e la media è diminuita. Risultato: se in Francia e Germania le retribuzioni hanno registrato, rispetto al 1991, aumenti a doppia cifra, in Italia sono scese dell’1%: da 45.342 a 44.893 dollari (a parità di potere di acquisto). Contro i 58.940 guadagnati dai tedeschi e i 52.764 dei francesi. A contribuire al gap c’è anche il fatto che in Italia solo il 6% dei contratti a termine viene convertito a tempo indeterminato e il 46,7% dei dipendenti precari ha un contratto di 6 mesi o meno. Il tempo parziale, che a inizio anni Novanta coinvolgeva l’11% dei lavoratori, ora riguarda il 18,2%, e in più di metà dei casi non è una scelta.

Riuscire anche solo a dimezzare il divario salariale tra l’Italia e la Germania, calcola il think tank, avrebbe enormi effetti positivi sul pil e sul gettito fiscale. Se le retribuzioni lorde italiane aumentassero in modo da ridurre del 50% il gap con quelle tedesche, i consumi nazionali – anche tenendo conto della propensione al risparmio delle famiglie italiane – salirebbero del 4,8% e il pil del 3,8%, vale a dire 74 miliardi di euro in più. Applicando al nuovo monte salari le aliquote fiscali, poi, si otterrebbe un gettito fiscale aggiuntivo pari a 65,2 miliardi di euro (+12%): più o meno due leggi di Bilancio, nota l’Ambrosetti. Un calcolo che dovrebbe far fischiare le orecchie al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, alla ricerca di coperture per una manovra che si preannuncia complicatissima.

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