di Carmelo Sant’Angelo

“Si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio”. Questa strofa di De Andrè potrebbe essere il perfetto epitaffio da iscrivere sulla lapide del Pd. Questo distico canoro vale più di mille analisi politiche. Non appena gli esponenti del Pd dismettono i panni da ministro si camuffano da politici di sinistra e chiedono alla destra al governo di varare norme che loro stessi hanno avversato.

Sin dalla sua nascita (2007) il Pd ha promosso norme che l’hanno allontanato dal mondo del lavoro, rinnegando i ceti popolari per abbracciare un pensiero neoliberale che ha minato la giustizia sociale. Il Pd è il più fedele interprete dell’ordoliberalismo di matrice tedesca, che costituisce le fondamenta dei Trattati europei. L’integrazione dei mercati finanziari ha richiesto un’omogenea politica monetaria, di bilancio e salariale: per attirare investimenti occorrono cambi fissi e una moneta unica e, a monte, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese, finanziata con tagli alla spesa pubblica oltre alla precarizzazione del lavoro e allo smantellamento dei diritti fondamentali dei lavoratori.

Il Pd nasce sulle orme di un percorso che aveva già condotto i socialisti europei in un vicolo cieco: la cosiddetta “terza via”. Il decennio da primo ministro di Tony Blair si conclude esattamente nel 2007 e due anni prima era terminata la parabola politica del cancelliere Schröder. Senza far tesoro di queste esperienze il Pd insegue la “vocazione maggioritaria” (qualunque cosa voglia dire). Per raggiungerla ha rinunciato alla giustizia sociale, come unico orizzonte, riconoscendo l’importanza del dinamismo economico.

In parole semplici, tutti questi partiti di sinistra illuminati sulla via del liberalismo riconoscono che la politica debba essere l’ancella dei mercati. L’idea keynesiana per cui lo Stato deve “correggere i fallimenti dei mercati dannosi” è vista come un retaggio ideologico, riconducibile al dogma della divisione tra destra e sinistra, di cui liberarsi. La politica deve assecondare la forza direttiva dei mercati e i partiti progressisti l’hanno fatto ridimensionando lo stato sociale; avviando programmi di privatizzazioni e liberalizzazioni; svalutando e flessibilizzando il lavoro. Assolto a questo compito le loro fortune elettorali si sono comprensibilmente esaurite, lasciando praterie aperte ai conservatori.

I dissesti provocati dal neoliberalismo colpiscono la classe media esattamente come i ceti popolari, odierni serbatoi di voti della destra. Questa meritoria attività del Pd ha ottenuto l’apprezzamento degli Stati Uniti, come recita il cablo del settembre 2008 dell’ambasciatore Usa Spogli: “È negli interessi degli Stati Uniti avere un Pd forte, che isoli gli elementi più populisti e accaniti dell’estrema sinistra, che hanno ripetutamente causato tanti guai nei governi di centrosinistra”.

Grazie al certosino lavoro della giornalista investigativa Stefania Maurizi sappiamo che “la diplomazia Usa guarda con interesse al Pd perché lo vede come un partito di contenimento della sinistra in Italia”. Per assecondare queste aspettative Veltroni nel 2008 isolò Rifondazione Comunista (facendo anche un accordo con Berlusconi per introdurre lo sbarramento del 4% alle elezioni europee, giusto per essere sicuri) consapevole di rinunciare a circa il 10% dei voti e, in tempi più recenti, Letta ha rifiutato qualsiasi ipotesi di apparentamento con il M5s, spalancando le porte alla destra nostalgica. Bipolarismo e voto utile, infine, sono stati il grimaldello per eliminare una sinistra autonoma, antiliberista, pacifista, non allineata con l’Impero.

Tutto ciò premesso: quante chance ha la Schlein di recuperare il voto dei ceti popolari? Nessuna! Più che un’astuta operazione di maquillage non potrà fare. La propaganda dei media continuerà a descrivere il Pd come un argine alla destra, ma il suo Dna dice esattamente l’opposto. Del resto, se il Pd fosse stato un partito di sinistra il Movimento 5 Stelle non sarebbe mai nato.

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