Sono rimasta incredula dopo le esternazioni di Ambra Angiolini dal palco del Concertone di Roma sul linguaggio e sulla desinenza di tante parole usate per nominare le donne nelle professioni, e come me tante altre amiche femministe. Perché non capire che le discriminazioni e gli stereotipi passano anche dal linguaggio? Perché non capire che i modelli culturali sessisti sono importanti da smantellare per arrivare ad una vera parità e le parole sono strumenti fondamentali per farlo? Perché una battaglia essenziale contro il divario salariale non deve andare di pari passo con quella del corretto linguaggio di genere? Ma possibile che siamo ancora a questo punto?

In Italia se ne dibatte almeno dal 1987, da quando Alma Sabatini pubblicò Il Sessismo nella lingua italiana. Da allora studi, seminari e ricerche hanno cercato di far capire che l’uso di un linguaggio corretto dal punto di vista del genere contribuisce a combattere gli stereotipi e a sradicare discriminazioni basate sul presupposto che uomini e donne non siano sullo stesso piano e interpretino ruoli sociali diversi.

Per dimostrare l’importanza delle parole e del loro uso basta leggere uno studio recente condotto in Francia: a un gruppo di mille persone è stato chiesto di citare “due scrittori celebri” e solo il 12 per cento ha pensato a una donna. Quando è stato chiesto di citare “due scrittori o scrittrici celebri”, la percentuale di chi ha nominato una donna è raddoppiata. Lo studio ha mostrato poi le stesse tendenze quando si trattava di nominare campioni o campionesse olimpiche, presentatori o presentatrici della tv.

Il Coordinamento nazionale dei Comitati di SeNonOraQuando? ha scritto una lettera ai segretari dei tre sindacati che organizzano la manifestazione del 1 maggio in piazza San Giovanni a Roma, perché è loro la responsabilità dei messaggi che vengono trasmessi da quel palco. Scrivono: “Una donna famosa e poco preparata sul tema non si pone il problema di quanto le parole siano uno strumento fondamentale per sradicare la società patriarcale che ancora ci circonda, anzi si chiede ‘che ce ne facciamo delle parole?’ non capendo che quando le donne sono rese invisibili nella lingua, lo sono anche nella mente e nella vita reale”. E si chiedono perché contrapporre i diritti e “barattarne” uno per esigerne un altro, perché continuare a nascondersi nel solito benaltrismo stilando una classifica dei problemi “veri” da risolvere.

I diritti, così come le discriminazioni sono interconnessi e sono pezzi di un puzzle che si intersecano e vanno a comporre una società più equa, più paritaria quando prevalgono, o più ingiusta, e meno inclusiva quando a prevalere sono le discriminazioni, e quelle linguistiche producono gli stessi danni di quelle determinate da atti fisici, concreti. Perché usare il maschile inclusivo per nominare le donne in qualunque contesto equivale ad avvalorare il dominio degli uomini su di loro.

Ma se tutto questo non bastasse, abbiamo anche la grammatica italiana che ci supporta e ci aiuta a sostenere il linguaggio corretto dal punto di vista del genere: la nostra lingua prevede infatti due generi, il maschile e il femminile, non contempla il neutro. Non sta a noi scegliere, come non sta a noi scegliere se usare il plurale quando parliamo di più persone o più cose: lo prevede la grammatica.

Ecco vorrei dire ad Ambra Angiolini che, se anche tutti gli altri discorsi non la convincono, noi non stiamo chiedendo niente di più che applicare in modo corretto la lingua italiana e la vorrei tranquillizzare: queste vocali al fondo delle parole non sono armi di distrazione di massa, sono le regole della nostra grammatica che aiutano a rendere il discorso più chiaro, evitando infrangimenti.

Prendo in prestito le parole di Manuela Manera, linguista, che ha scritto un libro dal titolo significativo: La lingua che cambia. “La lingua è uno strumento che si modifica in base alle necessità della comunità che la utilizza, ma è anche uno spazio abitato dalle persone. Osserva lo spazio linguistico in cui ti muovi: a chi è riconosciuto il diritto alla cittadinanza linguistica? Quali soggettività possono autodeterminarsi e quali invece sono marginalizzate, sempre oggetto di racconti altri? La lingua crea la realtà e gli immaginari”.

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