Stanno funzionando le sanzioni contro la Russia? Rispondere alla domanda non è semplice anche perché in parte dipende dalle aspettative poste in queste misure. Dati esaustivi e completi sono difficili da ottenere, anche perché Mosca ha smesso di diffondere alcune statistiche per ragioni strategiche. Di certo il collasso dell’economia russa che qualcuno aveva previsto e propagandato non c’è stato e non ci sarà, almeno non in tempi brevi. Si era parlato di un crollo del Prodotto interno lordo di oltre il 10% ma il 2022 si è chiuso a – 2,1% e, stando alle previsioni del Fondo monetario internazionale, il 2023 dovrebbe segnare un + 0,7%, seguito da un + 1,3% nel 2024, ovvero tassi di sviluppo superiori a quelli italiani e in linea con quelli della zona euro. “Sono le sanzioni più dure mai comminate e in qualche giorno porteranno al collasso l’economia russa” aveva proclamato l’allora segretario del Pd Enrico Letta. Avranno “un impatto devastante sull’economia russa e già lo stanno avendo, con il rublo crollato del 40% sul dollaro e le previsioni per una recessione e un’inflazione a doppia cifra”, aveva rilanciato il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen spiegava intanto che le misure avrebbero avuto un impatto molto pesante sull’economia russa “sopprimendone la crescita ed erodendone la base industriale”. Purtroppo sinora non è andata così.

Uno studio recente realizzato dagli economisti Tania Babina (Columbia University), Oleg Itskhoki (Ucla), Maxim Mirnov (Ie Business School, Madrid), Elina Ribakova (Peterson Institute), Benjamin Hilgenstock (Kse Institute), basato su un incrocio di dati certosino, fa il punto su quanto è avvenuto sinora nel mercato degli idrocarburi. Gli esiti non sono esaltanti ma il bicchiere è sia mezzo vuoto che mezzo pieno, a seconda di come lo si voglia guardare. Una premessa: l’embargo sul petrolio russo da parte dei paesi del G7 e dell’Ue è in vigore dallo scorso 5 dicembre, quindi relativamente da poco. Dalla stessa data è operativo pure il price cap a 60 dollari al barile per la vendita del greggio anche nei paesi che non aderiscono alle sanzioni. Lo stop all’importazione di prodotti raffinati (benzina, gasolio, etc) provenienti direttamente dalla Russia è invece partito dallo scorso febbraio. Tuttavia altre limitazioni erano già operative e hanno generato un effetto calmierante sui prezzi praticati da Mosca. Inoltre il mercato ha iniziato in anticipo a strutturarsi in vista delle nuove misure.

Tuttavia il 2022 si è chiuso per Mosca con un surplus di 316 miliardi di dollari, il più alto di sempre. Questo maxi avanzo è frutto sia dell’aumento del 21% del valore delle esportazioni a 532 miliardi di dollari, sia di una caduta delle importazioni, scese del 18% a 217 miliardi. Questo dato segnala una qualche efficacia delle sanzioni almeno nell’impedire a Mosca di acquistare tecnologie dall’estero e può quindi essere letto come un fattore di indebolimento, soprattutto se protratto nel tempo, dell’economia russa. Il valore delle esportazioni è cresciuto perché i flussi di petrolio sono rimasti invariati, le vendite di gas sono diminuite, soprattutto per volontà di Mosca, ma l’impennata dei prezzi che ha coperto molta parte del 2022 ha più che compensato il calo dei volumi. Dalla vendita di petrolio la Russia ha incassato 142 miliardi di dollari, dai prodotti raffinati 83 miliardi e dal gas altri 108 miliardi. Lo studio spiega poi come Mosca sia stata in grado di dirottare gran parte dei flussi di greggio che non si dirigono più in Europa ma verso altri mercati, soprattutto Cina, India e Turchia. In una certa misura questo è avvenuto utilizzando “flotte fantasma”, ovvero navi immatricolate presso altri paesi, spesso a Dubai, che triangolano su paesi terzi “ripulendo” il greggio russo che non risulta più tale e quindi non è più soggetto a embarghi o tetti al prezzo.

Il price cap di 60 dollari al barile fa perno sui sistemi assicurativi dei carichi, indispensabili per le spedizioni. Questi contratti sono siglati per lo più a Londra e agli assicuratori è vietato procedere per importi superiori a quelli del tetto. Tuttavia Mosca ha una certa capacità di gestire autonomamente queste pratiche “burocratiche” che riguardano la commercializzazione di greggio e raffinati, rendendo così meno stringenti gli effetti delle limitazioni occidentali. Dallo studio, sintetizzato dagli autori anche sul sito Vox.Eu, emerge inoltre come spesso il tetto al prezzo non venga al momento rispettato e come sia ingannevole il riferimento ai valori dell’Urals, un tipo di greggio russo che, in teoria, dovrebbe fare da riferimento per i prezzi praticati, un po’ sul modello di quanto accade in Europa con il Brent. In realtà i dati dei contratti mostrano come i barili vengano venduti in media intorno ai 74 dollari al barile (a fronte di una quotazione Urals di 52). In particolare in Cina le compravendite non starebbero avvenendo con grandi sconti rispetto alle quotazioni di mercato. Su questo punto gli analisti invocano una vigilanza molto più attenta per rendere efficaci le misure. Nelle ultime settimane India, Cina, e anche Giappone, hanno peraltro ufficialmente annunciato che continueranno ad acquistare greggio russo anche a valori superiori al tetto.

Tutto questo significa che le sanzioni sono un fallimento? Non del tutto. L’intento delle misure non è quello di abbattere le esportazioni di idrocarburi russi, cosa che provocherebbe un impazzimento dei prezzi insostenibile anche per molte economie occidentali, ma quello di limitare i ricavi mantenendo le quantità vendute più o meno invariate. Secondo le stime contenute nello studio esaminato, le misure hanno sinora privato Mosca di incassi per circa 30 miliardi di dollari. Guardando ai dati di marzo 2023, l’Agenzia internazionale dell’energia (emanazione dei paesi occidentale riuniti nell’Ocse) ritiene che la strategia stia funzionando. I ricavi di Mosca sono saliti di un miliardo rispetto a febbraio ma sono rimaste ben al di sotto dei valori del marzo 2022. L’embargo sembra funzionare meglio per i prodotti raffinati. L’Europa non li compra più direttamente dalla Russia. Ciò ha fatto sì che le raffinerie di Cina, India e Turchia abbiano aumentato di molto il loro import di greggio russo che viene poi lavorato nelle raffinerie locali per rivendere i prodotti ottenuti in Europa. L’effetto finale è duplice. Da un lato una parte dei profitti viene spostato dalle raffinerie russe a quelle indiane o cinesi o turche, dall’altro i consumatori europei pagano di più i prodotti. A sopportare il peso delle sanzioni infatti è anche chi le applica, non solo chi le subisce. Gli Stati Uniti, che hanno quasi l’autosufficienza per quanto concerne il petrolio e dispongono di gas anche da esportare, soffrono meno.

Secondo lo studio quello che servirebbe a questo punto sarebbe un forte inasprimento delle misure. Il tetto al prezzo del petrolio andrebbe abbassato a 35 dollari al barile e la sua attuazione andrebbe misurata e implementata con molta più attenzione e decisione. Anche qui bisogna intendersi. Ammesso che il tetto dei 60 dollari a barile venisse effettivamente e diffusamente rispettato non è una soglia tale da infliggere un colpo mortale alle finanze russe. In tempi normali a Mosca è sufficiente incassare 40 dollari al barile per mantenere i suoi conti in equilibrio. La guerra è certo molto dispendiosa ma, con questi prezzi, non pare che il Cremlino rischi di trovarsi rapidamente a corto di risorse per finanziarla.

C’è poi un aspetto delle sanzioni di natura politica. L’auspicio è che i disagi che infliggono alla popolazione possano favorire un erosione dei consensi nei confronti di Vladimir Putin e della ristretta cerchia di collaboratori della presidenza. Premesso che il valore dei sondaggi di opinione condotti in contesti non democratici è relativo, anche quelli condotti da organizzazioni occidentali, per ora, non mostrano una disaffezione della popolazione russa nei confronti del loro leader. Precedenti storici non suggeriscono eccessivi ottimismi. Le sanzioni nei confronti di Cuba, Iran, Venezuela non hanno prodotto cambi di regime.

Ci sono poi effetti collaterali non desiderati. Quando la Cina è stato colpita da misure doganali e tariffarie che hanno imposto il blocco all’import di alcune tecnologie, il paese ha iniziato a svilupparle e produrle autonomamente, aumentando il livello della sua manifattura. La Russia non è la Cina, certo, ma quello che è in atto è una corsa contro il tempo in cui sono impegnate entrambe le fazioni. L’alleanza occidentale cerca di tagliare a Mosca l’accesso a tecnologie e prodotti indispensabili per mantenere operativo il suo apparato produttivo, la Russia si adopera per trovare fornitori alternativi. Il fatto che la maggioranza dei paesi del mondo non aderisca alle sanzioni aiuta gli sforzi della Russia. Secondo anticipazioni, alcuni paesi del G7 tra cui gli Usa, stanno valutando la possibilità di proporre uno stop quasi totale dell’export verso la Russia. La proposta arriverebbe in occasione del vertice che si terrà a maggio in Giappone. Una misura che sarebbe piuttosto dolorosa per paesi come Germania e Italia che tuttora esportano verso Mosca quantità di merci significative. Nel 2022 i paesi del G7 hanno venduto alla Russia prodotti per 66 miliardi di dollari, circa 15 miliardi vengono dalla sola Germania, una decina dall’Italia.

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