Massimo Troisi compie 70 anni. Eppure ne dimostra appena 41. La sua voce è un sussurro buffo e poetico. Quello di strascicare pigramente le parole, intervallate da silenzi, diventano improvvise battute spiazzanti in lingua napoletana. È come il ragù partenopeo, è il prendersi il tempo, il ‘pippiare’ cioè ‘sbuffare’ lentamente. Una bolla per volta, finché non raggiunge la giusta intensità di sapore.

Immaginate per un attimo un mondo senza Internet, social, smartphone, i tanti canali televisivi, le piattaforme online. Non c’era nulla in quell’Italia degli anni Ottanta e Novanta, anzi, c’era un Paese dilaniato, attraversato dalla tragedia del terremoto, del terrorismo, delle guerre di camorra e di mafia, delle stragi, degli eccidi dei servitori dello Stato e poi dei misteri inconfessabili e dei patti indicibili, in quel tutto che si tiene e giunge fino ai nostri ‘strani giorni’. Il potere istituzionale e politico abbarbicato attorno alla Dc e al pentapartito. Una democrazia bloccata con il perpetuarsi degli stessi regnanti in un passaparola di segreti e omertà nazionale come rendita di posizione e straordinaria polizza assicurativa per il potere del potere.

C’è lui, Massimo Troisi da San Giorgio a Cremano, figlio di un capostazione (“odiavo la befana, ogni anno avevo regalato il trenino elettrico, casa mia sembrava la centrale delle ferrovie dello Stato”) che a 15 anni per rimpiazzare un attore che non si era presentato esordisce nel teatro parrocchiale con Lello Arena e altri amici. È un successo. Tempi comici pazzeschi, battute improvvisate, follia quasi surrealista, invenzioni, racconto del reale che diviene farsa nel mostrare le contraddizioni, una comicità per sottrazione, il non detto accompagnato dalla gestualità e dalle sfumature della lingua napoletana.

Il successo è travolgente, Troisi insieme a Lello Arena ed Enzo Decaro con la ‘Smorfia’ dai piccoli teatri di periferia approdano nel 1977 in tv con il successo di “No stop”. È motivo d’orgoglio: tre giovani napoletani diventano portavoce di una generazione che non vuole più portare addosso la fuliggine infernale dei padri e dei nonni. Massimo Troisi è cibo di popolo, riesce ad unire – caso unico – le due Napoli di Domenico Rea e il Sud e il Nord del Paese. Il suo è un umorismo complesso e complicato, viene sempre da un ragionamento. La battuta non è mai fine a se stessa ma sempre legata a un pensiero, appunto il ‘pippiare’, prendersi il tempo per riflettere con pacienza (pace più pazienza, scrive Erri De Luca).

È solo un dettaglio, se la notte del 4 giugno di 29 anni fa il suo ‘cuore matto’ ha finito di ticchettare. Da poche ore aveva concluso il doppiaggio del suo ultimo film, Il Postino, che gli regalò la nomination agli Oscar. Era terribilmente stanco. Si addormentò a casa di sua sorella ad Ostia e non si è più svegliato.

Non è morto – chiariamolo subito – riposa. Le sue battute stralunate, i ragionamenti contorti, l’andare oltre il punto di vista più scontato, il piegare l’evento negativo, trasformarlo, cercare la consolazione per poi ricominciare è l’humus segreto partenopeo.

Dice bene Nino D’Angelo quando afferma: “In tutti i napoletani c’è una parte di Massimo”. Come nascondere il turbamento, la commozione irrefrenabile e il ridere e il piangere messi assieme che solo Eduardo De Filippo, Totò e ultimo Massimo Troisi sanno suscitare. Questo si è vissuto, martedì scorso, all’auditorium della ‘Porta del Parco’ nell’ex area dell’Italsider di Bagnoli a Napoli in occasione della proiezione di“Buon compleanno, Massimo”, il documentario sulla carriera dell’attore, regista e poeta curato da Marco Spagnoli. Il punto l’ha toccato lo scrittore Maurizio De Giovanni quando dice: “Scrittori, autori che scrivono su Napoli e di Napoli hanno paura di ricorrere ai luoghi comuni perché nella mente del popolo si pensa a Massimo Troisi e alla dissacrazione perenne di quei luoghi comuni”.

In molti sketch ma anche film come ‘Ricomincio da tre’ e ‘Scusate il ritardo’ c’è l’avversione manifesta al ‘nonsipuotismo’ di Antonio Genovesi che aveva battezzato così il sentimento profondo e inguaribile – specialmente al Sud – dell’impossibilità di cambiare le cose, la rassegnazione, la sfiducia, il cronico disincanto. Massimo Troisi ha avviato una progressiva e implacabile destrutturazione dei luoghi comuni, la sua ironia graffiante, l’uso del paradosso sono divenuti grimaldello. Ha smontato i meccanismi retorici, la deformazione di un reale che ha alimentato una narrazione tossica di Napoli a cui gli stessi napoletani per troppo tempo hanno passivamente creduto e declamato. La sua lente d’ingrandimento sulla società ha fatto vedere il mondo, le sue contraddizioni, le sue finzioni e astuzie.

Come dimenticare Massimo Troisi ospite in tv che sul terremoto dell’Irpinia sbotta: “Invece di inaugurare proprio le case inauguravano i modellini. Il problema è se poi chiedono ai napoletani di rimpicciolirsi”. Resta memorabile una sua intervista a ‘Domenica in’ quando disse a un preoccupato e poi divertito Pippo Baudo: “Se Giulio Andreotti diceva che era mio padre, io ero contento. Avrei voluto lui come padre perché è ingenuo, è buono. Uno che sta da 40 anni in Italia sono accaduti delitti, mafia, servizi segreti deviati, stragi e lui non si è mai accorto di niente, mai”.

E se per festeggiare il primo storico scudetto della squadra azzurra comparve lo striscione “Scusate il ritardo”, ora per i vicoli timidamente c’è chi espone: “Ricomincio da tre”. Restiamo scaramantici. Auguri Massimo, buon compleanno.

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