Proteggere i neuroni dalla degenerazione rappresenta l’aspetto più complicato e allo stesso tempo l’approccio potenzialmente più efficace per le terapie destinate ai pazienti affetti dalla malattia di Parkinson. A compiere un passo importante verso questa direzione uno studio, pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine, e condotto dagli scienziati della Johns Hopkins University School of Medicine e della Inhibikase Therapeutics Inc.

Il gruppo di ricerca, guidato da Valina L. Dawson, Milton H. Werner, Senthilkumar Karuppagounder e Ted M. Dawson, ha testato su un modello murino una terapia sperimentale, basata sull’inibitore IkT-148009. La malattia di Parkinson è una condizione neurodegenerativa, ad evoluzione lenta ma progressiva che compromette il controllo dei movimenti e l’equilibrio. Sebbene sia nota da tempo, probabilmente da circa settemila anni, questa patologia deve il suo nome a James Parkinson, un farmacista londinese del XIX secolo che ne descrisse per la prima volta i sintomi nel dettaglio.

La malattia è diffusa in tutto il mondo e in tutti i gruppi etnici, si riscontra in entrambi i generi sessuali, ma con una lieve prevalenza negli uomini. Il morbo di Parkinson è associato a un tasso di prevalenza compreso tra l’uno e il due per cento della popolazione over60, ma il cinque per cento dei pazienti può sperimentare un esordio giovanile dei sintomi, che in alcuni casi possono manifestarsi tra i 21 e i 40 anni. Tra le persone con un’età superiore agli 85 anni, invece, il Parkinson si manifesta con una prevalenza compresa tra il tre e il cinque per cento. Il morbo di Parkinson rappresenta quindi la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa dopo l’Alzheimer.

Il team ha utilizzato un modello murino per valutare l’efficacia del composto IkT-148009, un inibitore progettato per invertire i difetti neuronali e proteggere le cellule cerebrali dalla degenerazione. Stando a quanto emerge dalla sperimentazione animale, l’approccio sembrava offrire benefici terapeutici anche se somministrato fino a un mese dopo la comparsa dei primi sintomi. Ricerche precedenti hanno contribuito a rivelare che la condizione è collegata a una chinasi denominata c-Abl, che può avviare e guidare l’accumulo di proteine mal ripiegate. In questo lavoro, gli scienziati hanno adottato delle tecniche di reingegnerizzazione di farmaci con metabolismo preservato (RAMP) per progettare e testare vari inibitori c-Abl. Dopo aver preso in considerazione una serie di candidati in base alla loro capacità di superare la barriera emato-encefalica e le loro proprietà farmacocinetiche, gli studiosi hanno selezionato IkT-148009 come opzione promettente. Il composto è stato somministrato quotidianamente a modelli murini di malattia di Parkinson a progressione lenta. I ricercatori non hanno osservato effetti collaterali gravi e l’inibitore era in grado di penetrare efficacemente la barriera emato-encefalica dei pazienti animali.

La terapia, riportano gli esperti, ha inoltre soppresso l’attivazione di c-Abl, proteggendo i neuroni da un’ulteriore degenerazione e migliorando notevolmente le funzioni motorie degli esemplari trattati. Questi dati promettenti, conclude il gruppo di ricerca, supportano la possibilità di esplorare ulteriormente il potenziale terapeutico dell’inibitore IkT-148009 per il trattamento di pazienti con malattie neurodegenerative.

Valentina Di Paola

Lo studio

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