“Non considero ragionevolela scadenza del 2035 per l’addio ai motori a combustione: è “profondamente lesiva del nostro sistema produttivo“. Durante la conferenza stampa di fine anno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo aver rivendicato di guidare un governo “amico delle imprese”, ha offerto sponda a una protesta che l’industria automobilistica italiana ed europea esprime da mesi. Lo scorso 17 ottobre per esempio si è levato il grido di dolore di Carlos Tavares, numero uno del gruppo Stellantis, sesto produttore di auto al mondo: “L’Europa sta uccidendo il futuro della mobilità”, ha affermato il manager criticando le normative ambientali adottate dall’Ue. Troppo rigidi e troppo penalizzanti, a suo dire, gli obiettivi sulla riduzione delle emissioni che nel 2035 dovranno essere azzerate. Allo stato attuale delle tecnologie significa l’obbligo di vendere solo veicoli elettrici. Il sito Politico ha inserito il manager portoghese nella lista dei “disrupter” europei del 2023. “Se l’auto elettrica avrà o meno un futuro in Europa dipenderà in parte da lui”, si legge nelle motivazioni per l’inclusione in classifica. Tavares ne è uno dei portavoce più energici ma i malumori non sono solo di Stellantis.

La mossa degli Stati Uniti – La situazione si è complicata dopo che gli Stati Uniti hanno varato, nell’ambito dell’Inflation Reduction Act, generosi crediti d’imposta fino a 7.500 dollari per le vetture elettriche ma solo se prodotte in Nord America. Mossa che rischia di spiazzare i costruttori europei e di innescare una migrazione di catene di montaggio verso l’altra sponda dell’Atlantico. Germania e Francia sono arrivate a chiedere a Washington di includere l’Europa nell’area a cui si applicano le agevolazioni. Le norme statunitensi saranno probabilmente un po’ ammorbidite, anche su richiesta delle case automobilistiche nazionali (Ford, General Motors, etc) che, con la versione attuale della legge, si troverebbero a loro volta in difficoltà visto che dipendono anche da fornitori esteri, cinesi in particolare. Tagliare la Cina fuori da questa filiera è ormai diventato quasi impossibile, specie per quanto riguarda le batterie che costituiscono il 40% del valore di una vettura elettrica. Pechino controlla una larga quota dei giacimenti da cui si estraggono i minerali necessari per fare le batterie, in patria e fuori. Forte di questo vantaggio la Cina sta investendo su stabilimenti ubicati anche in Europa: Spagna, Portogallo, Romania. La forza dell’elettrico cinese fa perno anche su un mercato interno in forte crescita che sta rafforzando i produttori locali. Lo scorso novembre le esportazioni di veicoli elettrici cinesi sono più che raddoppiate. L’incremento è stato del 165% rispetto all’anno prima per un valore, secondo i dati delle dogane cinesi, di 3 miliardi di euro circa. Belgio e l’Inghilterra sono stati i maggiori importatori, assorbendo quasi il 70% delle vendite. In mezzo tra Cina e Stati Uniti sta l’Europa, storico hub della produzione di vettori con motori a combustione, che rischia di rimanere spiazzata.

Come sta cambiando il settore – Il settore dell’auto è peraltro da qualche anno alle prese con una ridefinizione del suo modello produttivo. Complice il Covid e la strozzatura delle filiere, i volumi (i veicoli costruiti e venduti) si sono ridotti, i ricavi e i profitti no. La ragione è semplice, i prezzi sono saliti e i produttori lavorano con margini di guadagno più alti. Volkswagen nel 2019 ha prodotto 11 milioni di veicoli e incassato 252 miliardi di euro. Nel 2021 le auto uscite dagli stabilimenti del gruppo tedesco sono state 8,8 milioni ma i ricavi sono rimasti a 250 miliardi con profitti per 19 miliardi. Negli Stati Uniti la produzione di Ford è scesa in due anni da 5,9 a 3,9 milioni, i ricavi da 156 a 136 miliardi ma i profitti sono saliti da 1,8 miliardi di dollari. Qualcuno ipotizza che l’auto stia tornando ad essere uno status symbol che solo i più benestanti possono premettersi. L’elettrico sembra destinato per ora ad accentuare questa tendenza. Il trasporto su strada è responsabile di circa il 12% delle emissioni globali di Co2. Il cammino verso una maggiore sostenibilità è improcrastinabile e ormai avviato. Ma è errato concepirlo come un semplice cambio di motori. Quello che sta evolvendo è il concetto di mobilità nel suo complesso, con un ripensamento complessivo delle abitudini di spostamento. Un processo che dovrebbe assicurare la salvaguardia dei diritti alla mobilità anche per le fasce di popolazione che non possono più accedere al mercato dell’auto a causa dei prezzi.

La situazione degli investimenti – Tavares ha ribadito di recente che “l’elettrico è una tecnologia scelta dalla politica, non dai consumatori”. Il gruppo tedesco Volkswagen, che da anni si alterna con i giapponesi di Toyota come primo produttore al mondo, a sua volta si è lamentato del fatto che i costi energetici europei rendono le produzioni nel continente proibitive e rischiano di relegare il Vecchio Continente in posizione marginale. A dire il vero l’impressione è che sia in atto soprattutto una fortissima azione di lobby per ottenere dai governi quanto più denaro possibile. La stessa Stellantis si lamenta ma sta investendo massicciamente in nuovi impianti per la costruzione di batterie. Uno dovrebbe sorgere a Termoli, attratto in Molise anche da generosi sussidi pubblici pagati dallo Stato italiano. Il gruppo franco-italiano, di cui la famiglia Agnelli-Elkann controlla il 14,3% tramite Exor, ha anche annunciato che la produzione di motori elettrici raggiungerà oltre 1 milione di unità in Francia entro il 2024. L’aumento interesserà lo stabilimento francese di Trémery, presso Emotors, una joint venture tra Nidec LeroySomer Holding e Stellantis.

Volkswagen ha già pianificato di aprire sei stabilimenti per la produzione di batterie elettriche in Europa entro il 2030 e ha da poco siglato un accordo da 3 miliardi di euro con la belga Umicore che ricicla vecchi componenti tecnologici da cui ricava metalli utili per la filiera elettrica. La francese Renault ha sposato la svolta elettrica con meno ritrosie e a novembre fa il gruppo ha presentato la nuova divisione Ampère dedicata alla nuova motorizzazione che dovrebbe riunire circa 10mila dipendenti, tutti basati in Francia, sui 157mila del gruppo. Bmw ha annunciato che dal 2030 la metà della sua produzione sarà elettrica e che dal 2025 l’architettura societaria verrà ridefinita in modo che per qualsiasi modello si partirà dalla versione elettrica.

Serve una strategia industriale -“Le politiche europee hanno imposto ai produttori di ripensare e forzare i loro piani strategici”, spiega a Ilfattoquotidiano.it il professor Francesco Zirpoli, docente di economia e gestione d’impresa dell’università Cà Foscari. Non è necessariamente un male e di questo sono convinti anche i sindacati: “Abbiamo una data, una certezza e dobbiamo lavorare su quella”, dice Simone Marinelli, coordinatore nazionale automotive per la Fiom Cgil. Secondo i sindacati tuttavia questo processo va accompagnato con attente politiche dei governi. Uno dei “problemi” dell’auto elettrica è infatti quello di essere composta di meno parti, di essere quindi assemblata più facilmente e con la necessità di meno forza lavoro sebbene le stime sui posti a rischio siano tante e spesso piuttosto contradditorie. Nell’automotive “il 35% dei posti di lavoro è minacciato dall’elettrico”, per affrontare la transizione “abbiamo bisogno di una strategia industriale europea per mantenere e creare buoni posti di lavoro, decarbonizzando al contempo il settore”, ha detto di recente Luc Triangle, segretario generale dell’associazione di lavoratori IndustriAll Europe. Secondo altri dati, del centro di ricerca di Està (Economia e sostenibilità), sono ben 280mila i lavoratori del settore automotive italiano “impattati” dalla transizione ecologica, che richiedono quindi un qualche percorso di riqualifica professionale.

Le preoccupazioni per i posti di lavoro – I rischi per l’occupazione sono messi costantemente in evidenza anche dalle case automobilistiche. “Il tema c’è”, spiega Zirpoli, “ma non ho mai visto i produttori auto così sensibili a problemi occupazionali”. In realtà, sottolinea il docente, la costruzione dei motori è una delle attività che i carmakers hanno sempre mantenuto al loro interno, la semplificazione dell’assemblaggio per loro è un vantaggio. Anche per la componentistica, tuttavia, lo scenario non sembra così fosco. “Su circa 2.400 fornitori italiani“, ricorda Zirpoli, “meno di un centinaio sono in grado di produrre esclusivamente per motori endotermici, le altre sono 2.300 aziende hanno le competenze per entrare nella filiera dell’auto elettrica”. L’Italia ha grandi capacità e competenze nell’automotive ma ha anche un suo problema specifico, ossia che la presenza di un monopolista come Fiat-Fca prima e Stellantis adesso. Il paese non si è mai davvero aperto ai produttori esteri come invece hanno fatto Germania o Spagna. Così tutto dipende dalla volontà e dalle decisioni di un singolo soggetto. Il che tra l’altro si è tradotto in un progressivo assottigliamento dei volumi produttivi. Nel 1998 dalle catene di montaggio italiane uscivano 1,4 milioni di vetture, nel 2018 673mila. Per di più la politica è in ritardo. In Germania è stata creata un’apposita task force per gestire il processo e per gestire la formazione di nuove competenze tra i lavoratori.

I ritardi che si accumulano – In Italia il ministero dello Sviluppo economico a guida Giancarlo Giorgetti ha accumulato ritardi su ritardi e solo un pressing congiunto di sindacati e Federmeccanica è riuscito a fare fare qualche passo in avanti. Questa lentezza si paga: ne è un esempio il caso della Vitesco, in Toscana, eccellenza nella componentistica per auto a benzina e gasolio, spinoff del gruppo Continental che ha però deciso di investire sull’elettrico in Ungheria. Cosa fare dunque? Secondo Zirpoli sono “inutili finanziamenti a pioggia per il settore, le politiche e le risorse andrebbero focalizzate a favore delle aziende che stanno investendo in ricerca e sviluppo per la nuova mobilità e le nuove motorizzazioni”. Purtroppo per farlo in modo efficace servirebbero competenze anche ai livelli più alti della catena decisionale, ossia al Mise. E al momento queste competenze non ci sono, altro lascito della gestione Giorgetti promosso nel frattempo a ministro dell’Economia. Comprensibile, dunque, che Meloni si ritrovi a dover promettere battaglia a livello europeo per modificare le scadenze su cui tutti Commissione, Parlamento e Consiglio Ue hanno concordato solo due mesi fa.

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